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La scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più
(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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di Nando Cianci

Osservate una fila alla cassa del supermercato. Per lo più facce scure, espressioni di corpi compressi nell’inattività di un mezzo metro quadrato. Di persone schiacciate in un presente senza senso: non si sta

più facendo la spesa e non si è ancora varcato la barriera della cassa. Gli occhi a volte roteanti all’intorno, a volte strabuzzati verso l’avvenire, rappresentato in quel frangente dal giungere al cospetto della cassiera, a volte spenti in preda all’infelicità e al tedio, a volte sincronizzati con il pulsare incontrollato dei piedi. Gesti di insofferenza, quando il lesto scorrere degli articoli davanti al lettore ottico subisce un improvviso arresto: il codice di un prezzo consunto, che non si legge bene, o un cliente che se la prende comoda nell’estrarre il borsellino e contare una montagnola di spiccioli. Lui, che fino ad un momento prima aveva scalpitato in attesa del suo turno, ora gode nell’uscire dal presente immobile e assapora ogni gesto con rallentata urbanità. E si guadagna un metaforico premio oscar dell’antipatia, con il voto unanime dei membri della fila, espressi mentalmente o con qualche mal trattenuto mugugno. L’irritazione lambisce i confini dell’odio, fino a far dimenticare che, colui che fino ad un momento prima soffriva con noi nell’attesa, è partecipe, come noi, di una umanità provvisoriamente derelitta che ha appena finito di vagare, alla ricerca di un senso del proprio agire, tra montagne di pesche sciroppate e distese di pannolini.
            Ma che cosa sta accadendo per causare l’inquietudine che ci accompagna nell’attesa del nostro turno? Semplicemente che in quella fila stiamo senza far niente. Fatte salve le eccezioni di persone sagge che vanno alle poste o al supermercato (quando non possono servirsi nel negozio del quartiere) anche per vedere gente e stare un po’ con gli altri (quando non hanno luoghi più idonei all’aggregazione), accade che non sappiamo più stare senza fare niente ( o senza avere l’impressione di star facendo qualcosa). Non sappiamo stare in posizione di momentanea quiete. E nella fila sentiamo di star perdendo tempo, di veder sfuggire un pezzo di vita che si svolgerebbe libera e proficua al di fuori di quella incolonnata prigionia. Molto spesso, in verità, liberatici dalla fila, non abbiamo in prospettiva nulla che giustifichi la fretta di uscirne. E agguantato lo scontrino, ci buttiamo a razzo verso un qualcosa che non ha alcun requisito d’urgenza, come direbbero i costituzionalisti. E’ che la fretta, quale riflesso della velocità divenuta valore sociale assoluto, si è insinuata nel nostro agire quotidiano, nel nostro comunicare, nel nostro relazionarci. Un valore, spiega Franco Cassano, di cui gli economisti sono i più forti sostenitori e che diviene una sorta di
«religione affannata e paonazza» della corsa, che «serve a riempire tutti i pori della nostra mente e ad impedire che l’idea della legittimità di un’altra forma di vita si affacci alla nostra porta»
[1].

           In quella insofferente attesa è accaduto anche altro: abbiamo dimenticato, o messo in secondo piano, che, davanti e dopo di noi, in quella fila, ci sono esseri umani. Con i quali siamo accomunati da qualcosa di più profondo dello spingere gli stessi carrelli: la capacità di relazione, di parlarsi, di scambiarsi una gentilezza.
           Non che questo non accada mai, per fortuna. Ma l’osservazione empirica ci dice che, in quelle circostanze, sono più coloro che provano fastidio a stare lì di quanti ne fanno occasione di relazione umana. In un piacevole libro di qualche anno fa, Bruno Contigiani inserì quattordici “comandalenti”, che rappresentano altrettanti suggerimenti per il nostro piccolo agire quotidiano. Fra essi vi era questo: «
Se siamo in coda nel traffico o alla cassa di un supermercato, evitiamo di arrabbiarci e usiamo questo tempo per programmare mentalmente la serata o per scambiare due chiacchiere con il vicino di carrello»[2]. Consigli che ci sembrano banali solo quando la nostra parte razionale ha rimosso, vergognandosene inconsciamente, il ricordo dell’alluvione isterica di improperi con i quali abbiamo tentato di seppellire qualche collega automobilista che non si comportava come avremmo desiderato. O di quel che abbiamo pensato di chi rallentava, con il suo fare, la fila dalla quale eravamo ansiosi di uscire. Ecco: i “comandalenti” dovrebbero stare a buon diritto, a scuola, tra le cose da leggere e dibattere nell’educazione alla cittadinanza. Quand’anche non si condividesse la loro matrice (improntata, per l’appunto, al vivere con lentezza), essi contribuirebbero comunque alla formazione nei ragazzi di un pensiero critico, in quanto mostrerebbe loro che ci possono essere modi diversi di vedere e di vivere la vita e che quello di seguire «la religione affannata e paonazza» della corsa non è l’unico modo possibile di stare al mondo.
          


[1] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 61-62.

[2] Vivere con lentezza, Orme, Milano, 2008, p. 24. Ai quattordici “comandalenti” generali, l’autore ne aggiunge altri sette relativi, specificamente, alla cucina.

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(G. Leopardi, Zibaldone, 16. Settem. 1832).

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