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La scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più
(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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MAESTRO DENTROTrent’anni tra i banchi di un carcere minorile
di Mario Tagliani 
(add editore, Torino, pp. 192, € 14,00)

  Il muro alto e grigio che cinge un carcere minorile non ci dice molto sulle persone che reclude. Può dirci molto, invece, su chi vi transita davanti. Il cittadino rispettoso della legge, ma poco incline alla  pietas sociale, vi scorgerà la rassicurante protezione che lo separa dalla devianza. Chi fa il maestro dei ragazzi detenuti lo vedrà come la barriera oltre la quale deve attuare il suo impervio impegno professionale. A chi invece è maestro dentro, nel profondo dell’animo, farà sorgere una domanda spiazzante: «Che valenza educativa può avere un muro così alto?». E’ la domanda che si è posta trent’anni fa Mario Tagliani, all’inizio 

della sua avventura di maestro nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. L’avventura di un ragazzo che sente come troppo angusto il sentiero tracciato per lui dal suo ambiente di nascita e si avvia per il mondo alla ricerca di altre strade. Così, sulle tracce della donna amata, si ritrova a Torino, a fare il maestro. E, dopo una formazione giovanile nella quale il volontariato e la solidarietà giocano un ruolo di primo piano, e con un qualche aiuto del caso, diviene il maestro dei ragazzi dell’Aporti.
               E’ il racconto -condotto con stile scorrevole, denso di contenuti ma di piacevole lettura- di un educatore che non si nasconde le asprezze della realtà, le contraddizioni di individui e di gruppi sociali che si muovono tra ansie vitali e comportamenti conflittuali con altre parti della società; che non si lascia cullare dalla edulcorante brezza buonista che a volte le vicende degli “ultimi” suscitano e, contemporaneamente, non consente all’ assetto sociale di cavarsela, di fronte al dramma di centinaia di vite umane, di giovani, con la “semplice” arma della segregazione. Che chiede assunzioni di responsabilità, essendosi  lo stesso protagonista assunto in toto le sue. Il racconto, perciò,  di un percorso trentennale condotto con la passione di chi nella vita cerca ovunque la scintilla per accendere l’umana solidarietà e lo sguardo limpido dell’educatore che ha bisogno di osservare con lucidità l’intreccio delle vicende umane per scovare i sentieri giusti per il cammino.
               Un cammino impervio, che parte da ragazzi che vivono «un tempo sgangherato, fatto a pezzi,  senza alcuna logica» e che perciò deve sempre guardare a cose molto più profonde che il semplice apprendere nozioni. Con “scolari” che cambiano di frequente, tanto che, leggendo il libro, si ha a volte la sensazione di viaggiare sulle montagne russe, continuamente sbalzati tra approdi educativi confortanti e nuove situazioni disperanti. Non appena si è trovato un grimaldello  per far breccia nella chiusura di un gruppo sociale, o etnico o variamente composito, e si vede una “classe” aprirsi a nuove relazioni e a nuovo sapere, ecco che quella classe si dissolve. Il tempo di permanenza dei singoli individui nel carcere minorile è, infatti,  di 60-70 giorni, un anno scolastico davvero assai breve. E poi, nel corso dei trent’anni, cambia la provenienza sociale, geografica, culturale degli ospiti dell’istituto. Cambiano i cammini che li hanno portati alla reclusione e le prospettive di vita che perseguono. Agli immigrati dal meridione d’Italia si mescolano i rom, poi arrivano i ragazzi dell’est, poi quelli magrebini.  Ai figli del disagio e della disgregazione sociale seguono ragazzi violenti che hanno già vissuto l’esperienza dell’evasione con le armi in pugno. Alla speranza della strada del reinserimento, che sembra ad un certo punto essere privilegiata dal legislatore rispetto a quella repressiva (tanto che il Ferrante Aporti per un periodo si svuota), segue la doccia fredda della sua scarsa praticabilità con l’arrivo dei ragazzi stranieri, che non hanno una famiglia e un tessuto sociale cui riferirsi per il reinserimento.  E l’Aporti si riempie di nuovo, richiamando il maestro che nel frattempo aveva provato l’esperienza, non meno dura, dell’insegnamento in un carcere per adulti. Un continuo cambiare di problemi e di percorsi, che darebbe le vertigini se non ci fosse a temperarlo la pacatezza (e l’abilità) narrativa di Tagliani, che non indulge allo scoramento, anche se non può mancare di rammaricarsi delle risposte prevalentemente repressive che lo Stato, da noi, tende a dare a situazioni complesse che richiederebbe più coraggio nella difficile ricerca dell’integrazione. Così come non si fa mai tentare dalla spettacolarizzazione dei fatti pur drammatici che racconta. Ed, anzi, si indigna quando gli avvoltoi della spettacolarizzazione del dolore si avventano sulle tragedie. L’autore ci conduce dunque attraverso i gironi danteschi dei drammi adulti e giovanili con stile sobrio, ma mai sciatto, frutto certamente di padronanza della lingua, ma ancor più di un modo di attraversare il mondo non scevro di tensioni e sofferenze, ma al fondo sereno. Di quella serenità che viene dalla consapevolezza che tutte le tessere del proprio puzzle esistenziale sono finite al posto giusto e che i problemi, e anche i drammi, sono parte della vita e a nulla serve girarsi dall’altra parte. Anche se, naturalmente, non può proteggere da tutte le durezze dell’esperienza, dalla sofferenza per quegli inferni esistenziali nei quali anche i maestri possono essere risucchiati.
    Questo libro è, dunque, la storia di relazioni umane sempre tenacemente cercate e costruite da un maestro che fa della relazione, per l’appunto, il fondamento di ogni azione educativa. E che ricerca pazientemente le risorse nascoste in ogni persona, anche in quella che appare più refrattaria ai contatti umani. E che sa parlare a ragazzi nomadi che scoprono le fiabe nell’adolescenza e vogliono ascoltarle «per recuperare un po’ di infanzia che a loro era stata negata»; sa vedere anche in mezzo a «desolanti e tristi storie» la tenerezza (come quella delle donne rom che in carcere imparano a far disegni per mandarli ai figli che stanno a casa); sa descrivere con delicatezza le storie d’amore che si intrecciano fra le ospiti ruvide e aggressive di un carcere femminile; sa capire le nostalgie e le fragilità di ragazzi impenetrabili che finiscono con lo sciogliersi nel pianto.  E sa cercare in ogni situazione il metodo e i mezzi per far breccia: di volta in volta il disegno, la musica, lo sport, il teatro,  le nuove tecnologia; senza mai dimenticare il foglio e la penna.
  Narrandoci la storia di trent’anni di insegnamento in situazioni sempre eccezionali, questo maestro finisce con il parlare a tutti coloro che vivono nella scuola, dentro e fuori dal carcere. Ci dice che la relazione educativa è sempre possibile, anche quando il mondo ci frana addosso e distrugge la possibilità stessa di avere qualche certezza e di agguantare qualcosa che duri. Che i mezzi didattici, vecchi e nuovi,  sono un’infinità e possono aprire brecce insperate, se li si usa con intelligenza e passione; e che la chiave per accedere all’attività didattica va trovata sempre ascoltando i ragazzi. Che dai ragazzi bisogna anche saper imparare. Che il tempo è davvero “pieno”  non quando si misuri in quantità di ore trascorse a scuola, ma quando lo stare a scuola viene vissuto “pienamente” e sa aprirsi al mondo.  Che la scuola non deve mai essere una prigione, ma un luogo di crescita e di gratificazione. Che l’umanità viaggia ancora con un carico terribile di violenze, ma che la scuola può 
essere capace di far nascere solidarietà anche in animi abituati alla prepotenza.  Ci dice un sacco di altre cose ancora, che solo la lettura del libro può svelare ad ognuno.  E ce le dice con garbo, senza mai salire sullo scranno del giudice. Perché descrive per capire, non per dimostrare una tesi preconfezionata.
  «Il verbo leggere non sopporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo "amare", il verbo "sognare"... » scriveva Daniel Pennac in un bel libro di oltre vent’anni fa[1]. Invocare un obbligo di lettura del libro di Tagliani per tutti gli insegnanti delle scuole italiane andrebbe, perciò, contro il sacrosanto principio di Pennac, così come offenderebbe l’aria di libertà che sì respira nelle  pagine di Tagliani. Ma consigliarlo certamente si può. Sarebbe una lettura che riaprirebbe orizzonti ora offuscati a quegli insegnanti che si sentono stanchi della propria professione, che sono spinti alla rinuncia perché non riescono a dialogare con le nuove generazioni, che sognano classi “ideali” in cui tutti i ragazzi stiano zitti e buoni ad ascoltare le “spiegazioni”, miracolosamente immuni dalle influenze di smartphone, tablet e consimili apparati. Classi, insomma, che non esistono. Leggendo di vicende umane e di percorsi educativi che si imbattono in ben altri macigni che non le vere o presunte difficoltà di attenzione e di concentrazione, sarebbero aiutati a capire di quali privilegi godano, insieme ai loro ragazzi, nel poter operare in libertà; di come maestri si possa essere sempre e comunque, in ogni occasione. Se lo si è dentro. Se si è capaci di riconoscere i muri alti e grigi, reali o metaforici, e i “fondi sbagliati” di cui gli adulti hanno disseminato il cammino  formativo dei bambini e dei ragazzi. E se si è capaci, di fronte a ciò, di assumersi la responsabilità di essere maestro.

                                                                                                           Nando Cianci


[1] Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1993 p. 11

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A passo d'uomo

Parole al vento

VECCHIAIA

di NANDO CIANCI

La parabola della parola "vecchiaia": da evocatrice di saggezza e rispetto a termine da nascondere e negare- La vuota retorica "del nuovo"

Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di  parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi.   
 
(G. Leopardi, Zibaldone, 16. Settem. 1832).

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PUNTATE PRECEDENTI

Magnanimità
Gradimento 
Flauto 
Curiosità 
Tablet ai lattanti 
Fannulloni 
E allora? 
Penelope e 'a carogna 
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Truccati per la competizione  
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Libri lenti

VIANDANTI E NAVIGANTI. EDUCARE ALLA LENTEZZA AL TEMPO DI INTERNET

                                                   COPERTINA COPIA LAVORO

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RITSCHERdi Penny Ritscher, Giunti, Firenze, pp. 144, € 10,00

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copertina_libro
 
di Nando Cianci                  (con presentazione di Carlo Sini),Teaternum, pp. 160, € 10,00
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di Joan D. Francesch        La Scuola, Brescia,                 pp.192, € 9,50

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