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ECUEÉcue-Yamba-Ó
di Alejo Carpentier

Lindau, Torino, pp. 232, € 21,00

Il libro: Un’opera dalla storia e dai risultati controversi, che ne stimolano la lettura e la rendono interessante. Fu lo stesso autore a relegarla a livello di esperimento giovanile, scritta per sopportare la noia del carcere (dove era rinchiuso a Cuba sul finire degli anni Venti del secolo scorso con l’imputazione di professare idee comuniste). Autore che, dopo la prima edizione madrilena del 1933, si rassegnò ad autorizzarne una seconda pubblicazione solo alcuni decenni dopo, avendo constatato la diffusione di copie pirata in America e in Spagna. Ma, anche, avendone modificato il primo, alquanto ingeneroso, giudizio.
 Un’opera accolta in modo tiepido alla sua uscita, ma riscoperta successivamente in virtù del fatto che, nel frattempo, Alejo Carpentier era diventato uno dei più noti scrittori cubani. E grazie all’ammirazione che per la sua scrittura aveva manifestato García Márquez. 
 Un libro, dunque, di grande interesse, che Lindau opportunamente propone per la prima volta in versione italiana, con una operazione coraggiosa e generosa, per la quale è auspicabile un riscontro attento e diffuso dei lettori italiani. E’ un lavoro che può essere letto da diverse angolazioni: quello della storia dei generi letterari, quello etnico antropologico e, naturalmente, quello della storia in sé.
 Sotto il primo aspetto, il romanzo è caratterizzato dalla introduzione del concetto di reale meraviglioso  (che poi diventerà il realismo magico che troveremo in altri grandi scrittori, particolarmente sudamericani), un ossimoro che tenta di fondere quanto del surrealismo Carpentier aveva appreso in Europa, e poi rielaborato personalmente, con la riscoperta di un «primitivismo genuino e tutto americano» che egli contrappone  al «primitivismo estetico» nel quale le avanguardie europee stavano scivolando, come fa notare Vittoria Martinetto nella Introduzione.

   Riguardo al secondo aspetto, io scrittore incastona le vicende sullo sfondo di una atmosfera afrocubana nel quale la musica, i colori, i riti, le credenze compongono un insieme di grande ricchezza e suggestione, che ha fatto parlare qualche critico di un “lavoro quasi antropologico”.
   C’è infine, ovviamente, la storia raccontata. “Infine” nel senso che da più parti la trama è stata vista come un aspetto reso sbiadito dagli altri due. Ma forse non è così. Perché, a noi pare, nessuna considerazione lettera può reggersi, nessuna pennellatura antropologica acquista consistenza se la storia nella quale sono intessuti non ha una sua propria forza. E perciò le vicissitudini di Mengildo Cué, giovane contadino cubano che forma la sua personalità adulta nel carcere dove è rinchiuso per un atto di violenza generato da una passione amorosa, può essere letta e goduta anche di per sé, dal lettore che nel libro non cerca le caratterizzazioni riconducibili alla critica letteraria. Perché in fondo, come scrive Fernando Savater, non c’è una ragione migliore per leggere un libro del fatto che raccontano una bella storia. Come quella di Mengildo Cué, che non ci terrà con il fiato sospeso, non ci avvincerà in una spirale passionale, ma è semplicemente una bella storia. Da leggere con piacere.

   L’incipit: Spigoloso, dalle linee semplici come una figura di teorema, il complesso dello Zuccherificio San Lucio si ergeva al centro di un’ampia valle orlata da una cresta di colline blu. Il vecchio Usebio Cué aveva visto crescere il fungo di acciaio, ferro e cemento sulle rovine degli antichi torchi, assistendo, anno dopo anno, con una specie di panico ammirato, alle conquiste di spazio compiute dalla fabbrica. Per lui la canna da zucchero non aveva misteri. Non appena spuntava fra i grumi di terra nera, la sua crescita proseguiva senza sorprese. Il saluto della prima foglia; il saluto della seconda foglia. I cannelli che si gonfiano e si allungano, lasciando qua e là un piccolo solco verticale per l’ «occhio». La palese gratitudine dinanzi alla pioggia annunciata dal volo basso degli avvoltoi. Il germoglio, che un giorno si allontanerà sul pomo di una sella. Dal limo alla linfa, una concatenazione perfetta. Ma, una volta prodotto il taglio, il filo si rompe sotto l’arco della stadera. Parla il fuoco: «Per ogni cento misure di canna che il contadino consegnerà alla Compagnia, riceverà l’equivalente in moneta ufficiale di x misure di zucchero centrifugato, polarizzazione novantasei gradi, conforme alla media quindicinale relativa al periodo quindicinale in cui si siano macinate le canne che si liquidano …». La locomotiva trascina migliaia di sacchi pieni di piccoli cristalli rossi che  sanno ancora di terra, di zoccoli e di imprecazioni. La raffineria straniera li restituirà pallidi, senza vita, dopo un viaggio su mari sbiaditi. Dalla disciplina del sole alla disciplina dei manometri. Dalla cocciuta pariglia, che riconosce la voce dell’uomo, alla macchina spronata da beccucci delle stagnine.

L’autore: Alejo Carpentier (1904-1980), nato a Losanna da un architetto francese e da una traduttrice di origine russa poi trasferitisi a Cuba, è cresciuto in un ambiente di meticciato culturale, mostrandosi sensibile fin da giovane al valore della cultura afrocubana. Molto ammirato da García Márquez, la sua opera ha contribuito a elevare e nobilitare la cultura latinoamericana e i suoi narratori. In Italia i suoi lavori sono stati pubblicati, tra gli altri, da Sellerio (Il secolo dei lumi, 1999), Einaudi (L’arpa e l’ombra, 1997) e Baldini Castoldi Dalai (L’Avana, amore mio, 2004).

 

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