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La scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più
(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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di Nando Cianci

Sui social network si leggono, con straripante frequenza, giudizi perentori ed inappellabili su avvenimenti, idee, fatti pubblici e privati. Tali giudizi sono per lo più accompagnati da insulti verso chi la pensa diversamente, trattato

da poveraccio cui difettano capacità cognitive e di discernimento. La demolizione del colpevole di pensiero differente avviene in vari modi, che spaziano dal sarcastico al volgare, dal rimbrotto a muso duro fino all’augurio di una presto dipartita da questo mondo.Si va dalle incursioni non benevoli verso le parti più intime del corpo (preferite quando il nemico è donna) fino a propositi espliciti di squartamento o di vivisezione. I più ebbri si abbandonano a vere e proprie “ole” virtuali quando scompare un personaggio pubblico (e non solo) non particolarmente amato. E’ un fenomeno che colpisce non solo persone aduse anche nella vita reale a non tollerare un mondo che si ostina ad essere diverso da come esse lo vorrebbero e, soprattutto, a non concedere libertà di pensiero a chi ha un’altra visione della vita, delle cose, della dialettica e del dialogo. Conosco persone che nelle relazioni umane reali sono gentili, persino miti, addirittura dolci, e che –quando si avventurano nel web- si trasformano in internauti ringhiosi e malmostosi. Dei veri e propri dottor Jekill, quando sono di fronte ad altre persone in carne ed ossa, e mister Hyde, di fronte ad uno schermo nel quale gli altri sono esseri virtuali.

Il mezzo che consente di vivere nel virtuale sembra, così, avere il potere di legarsi alla parte peggiore di noi, che magari con la perseveranza della ragione abbiamo relegato in scantinati infimi della nostra interiorità, riuscendo a tenerla a bada, a neutralizzarla a vantaggio della gratificazione che danno i rapporti di amicizia, di affetto, di cooperazione. Una parte, quella peggiore, che il mezzo sembra persino riuscire a scatenare.

Il mezzo, dunque, non sarebbe neutro, ma “imporrebbe” una sua logica e dei comportamenti conseguenti, come affermano autorevoli studiosi. Per esempio Giuseppe O.Longo: «La tecnologia e i suoi prodotti non sono neutri, non sono “soltanto strumenti”, che si possono vestire e svestire a piacimento. Una volta adottato, uno strumento entra dentro di noi, ci modifica e ci condiziona: tutti lo capiscono, almeno a livello inconsapevole, e questo spiega perché la tecnologia susciti emozioni profonde, paure ed entusiasmi, perché scateni dure battaglie tra conservatori tecnofobici e tecnofili progressisti»[1]. Mutamenti non necessariamente negativi. Più preoccupate, e più drastiche, le posizioni come quella di Gustavo Zagrebelsky, almeno quando si concentra sulla comunicazione digitale, vista anche in relazione al libro: «La chat e i suoi fratelli –blog, tweet, social forum, newsgroup, facebook, sms ed e-mail al posto delle lettere, messaggi immediati d’ogni tipo- appartengono al mondo dell’istantaneità, dell’azione e reazione –come si dice- in tempo reale; i libri appartengono al mondo della durata». La comunicazione su facebook e simili «non ha onere d’argomentazione e non si alimenta di risposte. Se la risposta c’è, è del medesimo tipo. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Spesso, si perde di vista l’oggetto del messaggio ricevuto e ci si concentra su chi l’ha inviato, per lo più per coprirlo di contumelie»[2]. Una visione che individua dei connotati di fondo che sembrano lasciare poco spazio ad un uso diverso del mezzo.

Ma davvero il mezzo ha una potenza tale da non consentire a chi se ne avvale di praticarne un uso diverso? Un margine di autonomia e di possibilità, in realtà, va sempre riconosciuto all’essere umano, fosse pure all’interno di confini che il mezzo comunque tende, e spesso riesce, ad imporre. Confini che sono più ampi di quelli che le visioni pessimistiche tendono ad individuare e che il sensazionalismo di gran parte del mondo dell’informazione tende ad enfatizzare. Meno di un anno prima della sua scomparsa, ad esempio, i media rilanciarono con grande clamore l’affermazione di Umberto Eco secondo la quale «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività». Mentre i più sorvolarono su altre parole che lo studioso aveva pronunciato nella stessa occasione, con le quali aveva sottolineato che «il fenomeno dei social network è anche positivo, non solo perché permette alle persone di rimanere in contatto tra loro. Pensiamo solo a quanto accaduto in Cina o in Turchia dove il grande movimento di protesta contro Erdogan è nato proprio in rete, grazie al tam-tam. E qualcuno ha anche detto che, se ci fosse stato Internet ai tempi di Hitler, i campi di sterminio non sarebbero stati possibili perché le informazioni si sarebbero diffuse viralmente». Così come aveva indicato la necessità per la scuola di «aiutare i ragazzi a filtrare le informazioni su Internet».

Non siamo, dunque, impotenti davanti al mezzo informatico. Per poter agire con esso, occorre però astenersi da scomuniche che lo relegano al ruolo di nemico che attenta alla nostra ”essenza” umana. Occorre, anche, riconoscerne la forza. E andarvi incontro con la forza della nostra cultura plurimillenaria, che ci ha portato ad essere quello che siamo nutrendoci anche di poesia, di musica, di pittura, di matematica, di tante creazioni della fantasia e dell’intelligenza umane. Una cultura che è perfettamente in grado di convivere con Internet. E’ di quella cultura che dobbiamo ricordarci quando il mezzo di comunicazione digitale solletica istinti belluini e sembra spingerci a partecipare ad una permanente sagra dell’insulto. Dobbiamo ricordare che facebook è il luogo dell’insulto se noi ci addentriamo nella sua rete da sprovveduti e denudati del patrimonio che il sudore plurimillenario di tante generazioni ha accumulato in noi. I social, insomma, possono essere anche un luogo di incontro e di confronto. Per depurarlo delle componenti che ci vorrebbero trasformati in tanti mister Hyde occorre attingere a quel patrimonio e, in particolare ad un nostro connotato che i tempi tendono a lasciare in ombra: la magnanimità. E’, questa, una parola che si presta a qualche equivoco, perché sembrerebbe alludere ad un senso di superiorità che la persona magnanima mostrerebbe, guardando con sufficienza bonaria le debolezze e le meschinità del genere umano. Questo perché storie, aneddoti, racconti edificanti hanno di solito mostrato questa virtù in principi, condottieri, persone, diciamo così, di alto rango. In realtà magnanimità indica generosità, grandezza d’animo, altruismo. E può, trovarsi, perciò, in qualsiasi essere umano.

Che c’entra questo con l’uso dei social? Per astenersi dalla ferocia virtuale occorre, innanzitutto, essere consapevoli che possiamo essere nell’errore. Il che ci impedirà di aggredire chi la pensa diversamente da noi con la clava della certezza che ci viene dal nostro sentirci infallibili. Occorre, ancora, ascoltare nel profondo le ragioni degli altri e saper imparare da esse (non per applicare il “politicamente corretto” o praticare il cosiddetto “buonismo”, ma semplicemente per non avere una considerazione esagerata di noi stessi). Occorre, infine, non fare di ogni questione di cui ci si occupa (dal modo di sbucciare le patate fino  ai destini ultimi del pianeta) una questione di vita o di morte, destinata ad un miserabile precipizio se i nostri interlocutori non accolgono seduta stante la nostra opinione. Sono, questi, tutti comportamenti riconducibili alla magnanimità della quale una bella definizione venne data, diversi decenni fa, da monsignor Giuseppe Rovea: la magnanimità è «la capacità di guardare alla sostanza delle cose, di non arenarsi e formalizzarsi in certe sciocchezze che inaridiscono la vita, di cogliere invece gli aspetti positivi delle persone e delle situazioni. E’ magnanimità anche il saper vedere i propri limiti e difetti, pur nello sforzo di vincerli e superarli. E’ la magnanimità, che si fa sapienza, che sdrammatizza certe situazioni difficili e le riconduce a soluzioni serene»[3]. Una virtù che nulla ci impedisce di praticare anche su Internet.  



[1] Giuseppe O.Longo, Il tecnodestino di Homo technologicus, prefazione a Paolo Gallina, L’anima delle macchine, Dedalo, Bari, 2015, p. 9.
[2] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino, 2014, p. 45.
[3] Giuseppe Rovea, L’impegno spirituale del preside e dell’ispettore scolastico, in AA.VV., Ispettori e presidi nella scuola media e nella scuola secondaria superiore, U.C.I.I.M, Roma, 1984, p. 17.

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(G. Leopardi, Zibaldone, 16. Settem. 1832).

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