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di Bruno Frank
Castelvecchi, Roma, pp. 240, € 17,50

CERVANTESIl personaggio si presenta subito in vivente contraddizione con il suo tempo: esterna onestà e limpidezza in un ambiente spagnolo, quello del Cinquecento, dominato da manovre, raggiri e «astuzie cortigianesche». Da queste pagine d’esordio prende l’avvio una esistenza intrisa di avventure e di rovesci che Bruno Frank fa scorrere nel suo romanzo Cervantes, in continuo equilibrio tra realtà storica e fantasia narrativa.
Il celebre autore del Don Chisciotte viene seguito e raccontato nella miriade di vicissitudini che egli attraversa con una «tormentosa inquietudine», che gli impedisce di acquetarsi, quando gli si presenta l’occasione, in una vita tranquilla e quasi elegiaca e lo spinge a inseguire continuamente «i sogni con i 

quali era uscito per il mondo». Non riesce, così, ad acconciarsi ad una esistenza protetta dal cardinale Acquaviva, di cui era segretario, che pareva destinarlo ad una tranquilla condizione ecclesiastica nella Roma cinquecentesca, dove si aggirano prelati e popolani senza arte né parte, dove le attività commerciali sono sorrette solo dal giro di denaro indotto dal florido mercato della prostituzione e le pecore pascolano tra San Pietro e Castel Gandolfo. E dove Cervantes svolge il suo noviziato nel “gioco dell’amore”, con quella che le si presenta come una bella vedova veneziana e che si rivelerà poi, beffardamente, una prostituta.

E’ l’inizio di una altalena di illusioni e bruschi risvegli che caratterizzerà tutta la sua esistenza e che faranno maturare nel carattere di Cervantes tratti che ricordano quelli che ritroveremo nella sua celebre creatura romanzesca.  Questa affinità con Don Chisciotte viene fatta emergere da Bruno Frank già negli anni giovanili romani, dove Cervantes rivela un’indole che rifuggiva dalla «realtà torbida e grottesca» che avvolgeva anche le imprese della cristianità, nelle quali egli vedeva, invece, solo eroismo e fede. Inizia, insomma, il giovane protagonista del romanzo, ad aggiustare la realtà con il suo personale sguardo. Una tendenza che, però, non trionfa del tutto. Più di una volta, infatti, si chiede se quel che sta sotto i suoi occhi sia vera realtà o  solo il velo che ne nasconde un’altra. E nel personaggio sono spesso in dialettica tensione la fantasia, che possiede in maniera «accesa e sfrenata», e i duri richiami del mondo reale. In lui si intrecciano, così, un alone magico, che sembra in qualche modo proteggerlo anche nelle sventure maggiori ( e che, comunque, glie le fa accettare, per lungo tratto del romanzo, con serenità, a volte persino con ilarità) e un crudo realismo che nel corso delle avventure gli intaccheranno anche il corpo. Del resto, come già accennato, in questo romanzo la vita di Cervantes è un susseguirsi di continue, sia pur modeste, ascese e di repentine e rovinose cadute, di sogni costruiti dalla sua fantasia e scossoni infertigli da una realtà che non vuol saperne di piegarsi alle sue illusioni. Man  mano che il racconto scorre, si ha la sensazione che la sua futura creatura, Don Chisciotte, cominci a vivere in Cervantes, che un ponte colleghi l’animo dei due. Bruno sparge, infatti, con sempre maggior frequenza indizi che rimandano al Don Chisciotte. Ecco Cervantes lanciarsi, nello stendere una composizione in versi, «contro forze strapotenti, contro l’invidia, la perfidia e la stoltezza, che proiettano le loro ombre gigantesche e alterne sul cammino di ogni vero uomo». Ed ecco una descrizione della Mancia, nella quale va a vivere dopo essersi sposato, dove compaiono mulini a vento, paesaggi e personaggi che sembrano delineare l’ambiente in cui si muoverà il fantasioso cavaliere. Anche se, qui, è una figura femminile, quella della moglie di Cervantes, a considerare, donchisciottescamente, il mondo dei cavalieri e degli eroi «con tutta serietà» e a non considerare la lettura dei romanzi cavallereschi come semplice passatempo: «sua moglie credeva quella realtà non meno dimostrata dell’altra in cui viveva». Ecco, infine, la descrizione della metamorfosi con la quale Cervantes, in prigione, si guarda allo specchio e tratteggia sul foglio un autoritratto che coincide con le sembianze del Don Chisciotte che sta per iniziare a scrivere.

Insomma, tutta la vita di Cervantes, quale esce dal romanzo di Bruno, sembra una preparazione al Don Chisciotte, come se nella vita avesse accumulato una quantità tale di  illusioni, fantasie e risvegli che dovevano poi necessariamente sfociare nella creazione del suo capolavoro.

Il Cervantes di Bruno, non è, quindi, solo un romanzo, di gradevole lettura, che racconta la storia del suo protagonista. E, a ben guardare, non è neanche solo l’intreccio di questa storia con la gestazione, per così dire, del Don Chisciotte (titolo con il quale si suol riassumere quello che Cervantes diede alla sua opera: Il fantasioso cavaliere Don Chisciotte della Mancia[1]).

L’opera può essere letta almeno su un altro livello ancora: quello che vede Filippo II, l’allora re di Spagna, protagonista di una sorta di romanzo nel romanzo. Nella narrazione delle vicende di Cervantes, si inframmezzano, di tanto in tanto, capitoli che riguardano quel personaggio. In uno, ad esempio, viene descritta la cupezza mistica del sovrano, il suo tetro e maniacale bisogno di ordine, al quale la natura si oppone con una bufera, mettendo a nudo, anche attraverso sequenze grottesche sapientemente costruite da Bruno, la fragilità del sovrano stesso. Altrove, per fare un altro esempio, Filippo , intento a preparare la sua guerra contro l’Inghilterra, immiserisce il regno e gli strati popolari dei suoi sudditi, spogliandoli anche dei mezzi minimi di sussistenti. Il tutto per perseguire la sua “missione” di estirpare ovunque l’eresia, di cercare l’assoluto, l’unità e la «purezza della fede per tutti i popoli, la vittoria universale della santa lettera».

Quelle di Cervantes e di Filippo finiscono per essere, così, due vite parallele dominate dall’illusione: quella di un individuo, nel primo, e quella del potere, nel secondo.

Una operazione difficile, quella di far vivere il romanzo su diversi piani. Un’operazione che Bruno conduce con successo, perché riesce ad evitare la farraginosità che un intreccio a più livelli porta spesso con sé e a presentare al lettore un romanzo che tiene insieme densità di trama e leggerezza di scrittura. E che mette di fronte al lettore pagine di piacevole lettura. Che si può condurre anche con spensieratezza,  secondo quanto, in un certo senso, il Cervantes reale auspicava nell’incipit del Prologo al suo capolavoro («Caro spensierato lettore…»).

                                                                                                            Nando Cianci

                                                                                                                                        



[1] Nella prima edizione, del 1605, il titolo spagnolo è El ingenioso hidalgo Don Quixiote  de la Mancia. In seguito ad alcune innovazione introdotte dalla Real Academia Española nel 1815 nella corrispondenza di grafemi e valori fonici, Quixote divenne Quijote.

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