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ILPAESE CHE ERARacconto della Siria, di Alia Malek, Enrico Damiani Editore, 2018, pag. 445, euro 19,00.

 

Il libro: Nata all’estero, Alia Malek torna in Siria, terra d’origine dei suoi genitori, in un momento assai agitato, nel 2011, quando il paese sembra essere impermeabile all’ondata d’urto che aveva sconvolto Libia, Tunisia ed Egitto. Per due anni vive a Damasco, in situazione rischiosa, pensando che anche in Siria potesse avvenire un cambiamento, al quale sperava di contribuire. Vive nella casa della nonna, ambiente propizio a ricostruire il procedere congiunto della storia della sua famiglia (a partire dai bisnonni) e della Siria (dai tempi dell’impero ottomano), della quale narra la resistenza secolare alle mire delle potenze estere e, all’interno, la presenza della religione nella vita pubblica, le disuguaglianze sociali, le contraddizioni, le distanze economiche tra gli strati della popolazione. Insieme, naturalmente, alle componenti culturali dominanti e che hanno effetti molto concreti nella vita dei singoli e delle comunità, a cominciare dal ruolo della donna che, quando si spinge oltre i paletti assegnatale della condizione di moglie e madre, per agire nei territori dello studio, della libertà sessuale, della ricerca di altre strade, vede aggiungersi, alla disparità delle tutele nei confronti del maschio, lo sguardo ostile della società. Spicca, in questo ambito, la bella figura della nonna di Alia, Salma, figura che assomma in sé la forza d’animo, il coraggio sociale e la femminilità.
Al fondo di tutta l’opera, la speranza dell’autrice di una Damasco ed una Siria rigenerate, terre di bellezza antica e di pace. Una speranza che non si abbandona alla illusione, perché conosce i tempi della storia, ma senza la quale il mondo si richiuderebbe in un cerchio piccolo e asfissiante.

Memoria, nostalgia delle radici, amicizia, rituali festivi, rapporti di vicinato, emozioni, doppiezza di chi è ostile al regime in privato e lo osanna in pubblico, oppositori dignitosi e coraggiosi: in questo libro si riversa un campionario di sentimenti, odori e sapori di una terra, e una varia umanità che intravede un nuovo mondo ma vive nel vecchio. Una narrazione che deve il suo fascino, oltre che alla chiarezza della scrittura, al saper mettere insieme le asperità della storia politica, militare, economica, culturale (guardate con l’occhio della gente comune) con la freschezza avventurosa della saga familiare. Con, in aggiunta, una gran quantità di informazioni utili a raggiungere uno degli scopi che l’autrice si proponeva: far conoscere al mondo il paese dei suoi avi oltre le immagini stereotipate dei media internazionali.

 

Il risvolto: Nel 2011, poco dopo l’inizio della primavera araba, Alia Malek torna in Siria, il paese d’origine dei suoi genitori, che l’avevano lasciato prima che lei nascesse per trasferirsi in America e sfuggire così al regime di Assad. Nonostante le rivolte e la repressione, si respira ancora un clima di speranza, l’illusione di un cambiamento, tanto che Alia decide di restaurare la casa della nonna e restituirla al suo antico splendore.
Questo libro è un tuffo nel passato, reso necessario non solo dalle emozioni personali, ma dal desiderio di raccontare a chi non sa – e sono moltissimi – che cos’è davvero la Siria e quali sono stati i passaggi fondamentali della sua storia nazionale più recente. Il punto di partenza è la storia della sua famiglia, che si snoda sullo sfondo dei grandi eventi che hanno segnato il paese nel corso degli ultimi cent’anni, un racconto in cui privato e quotidiano si intrecciano alla Grande Storia in un insieme avvincente e ricco di fascino.
E la capacità di restituirci un mondo ormai finito – il profumo di gelsomino nelle strade, le vie strette cariche di segreti, gli amori e i tradimenti, gli aromi speziati delle cucine – è pari a quella di descrivere e interpretare il contesto geopolitico che ha portato le cose al punto in cui si trovano adesso.
Un libro straordinario, in cui il filo della memoria, con il suo carico di dolore e nostalgia, si annoda al racconto di una terra senza pace.

 

L’incipit: Quando lasciai la Siria, nel maggio del 2013, molti in famiglia erano felici di vedermi andare via.

Secondo loro era anche troppo tardi.

Il paese era già sprofondato da un paio d’anni nell’abisso nero che l’avrebbe distrutto, disintegrato: centinaia di migliaia di vittime; milioni di profughi all’interno e all’esterno dei confini siriani; villaggi, cittadine e città in macerie; un numero indefinito di scomparsi; e il futuro rubato a ben più di una generazione.

Nel 20111, quando furono rovesciati uno dopo l’altro i regimi autoritari di Tunisia, Egitto e Libia, tutti gli occhi si rivolsero alla Siria. Ma il regime che da quarant’anni dominava il paese rimase arroccato sulle proprie posizioni. Il presidente siriano Bashar-al-Assad, che aveva ereditato il potere dal padre, Hafez-al-Assad, proclamò a gran voce che contro la Siria era in atto un complotto fomentato dall’estero. Il regime, nel respingere qualunque resoconto che svelasse la falsità della propria versione dei fatti, accusava ferocemente i media di perpetuare il ricorso alla menzogna. Nel paese erano già morti o scomparsi alcuni giornalisti occidentali, suscitando attenzione a livello internazionale. Ma stavano morendo anche i giornalisti siriani, sia quelli professionisti che gli adepti del giornalismo partecipativo, solo più in silenzio e in numero ben più elevato.

E io, essendo giornalista oltre che di nazionalità americana, ero in una posizione doppiamente pericolosa. Per questo molti dei miei familiari erano preoccupati, ed erano convinti che prima fossi partita meglio sarebbe stato.

Alla maggior parte dei corrispondenti stranieri era stato negato di entrare legalmente in Siria, mentre io ero riuscita a entrare e muovermi a Damasco con relativa facilità. Anche se sono nata all’estero entrambi i miei genitori sono siriani, inoltre -dettaglio importante- avevano registrato la mia nascita all’anagrafe siriana, in previsione di un futuro ritorno in quella Siria dove intendevano far crescere i loro figli. […]

A differenza di molte altre grandi città, a Damasco non esiste l’anonimato. Qui non puoi renderti invisibile nella metropoli. Quattro diversi apparati di sicurezza, noti nell’insieme come mukhabarat, che nella sola capitale contano almeno ventidue sezioni, sorvegliano da decenni i sudditi del regime a cui rispondono (si calcola che per le mukhabarat lavorino 65 mila uomini a tempo pieno -il che vuol dire uno ogni 153 cittadini adulti- oltre a centinaia di migliaia di collaboratori a tempo parziale o non ufficiali).

 

L’autrice: Alia Malek, americana di origini siriane, è stata un avvocato per i diritti civili. Ora è una giornalista pluripremiata. Ha pubblicato The home that was our country – A memoir of SyriaA Country Called AmreekaPatriot Acts – Narratives of Post-9/11 Injustice e EUROPA – An Illustrated Introduction to Europe for Migrants and Refugees. Ha scritto per testate come “the New York Times”, “the Nation”, “Foreign Policy”.
Ha un rapporto particolare con l’Italia, paese dove ha studiato e vissuto per diverso tempo, e ha un’ottima conoscenza della lingua.

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