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La scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più
(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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SCUOLA DI CLASSEdi Roberto Contessi, Laterza, Bari-Roma, pp.116,  € 14,00
Il libro: Di analisi impietose della scuola italiana non si può certo dire che difettino, da noi,  l’editoria,  la pubblicistica, il discorso pubblico e le conversazioni familiari o nei bar. Più o meno a ragion veduta. E per le ragioni più diverse, che vanno dall’insoddisfazione perché il sistema non corrisponde alla personale idea che ognuno ha della scuola fino alla sincera aspirazione che dalla scuola venga un contributo maggiore alla costruzione di un’idea condivisa di bene comune; dal risentimento spicciolo per episodi deludenti vissuti come genitori o studenti al vezzo di scaricare sulla scuola i mali e i problemi che la società non sa affrontare e risolvere. Un proliferare di discorsi ed opinioni che non sempre partono da una conoscenza approfondita del mondo scolastico. O che partono da punti di vista assai parziali.
In un tale panorama, assume particolare interesse una disamina critica che viene dall’interno della scuola, da un professore che in essa opera e che, perciò, ne conosce la vita intima, le difficoltà, le incongruenze e le buone pratiche.
L’analisi che Roberto Contessi, professore di storia e filosofia, svolge nel suo Scuola di classe, edito da Laterza, tende a strappare il velo che copre una realtà scolastica che, dietro la facile acquisizione del diploma da parte di molti studenti, nasconde una nuova forma di classismo. Non più quella che divide i ricchi dai poveri, ma quello che vede soggetti «culturalmente forti contro culturalmente deboli». Con i secondi lasciati soli, vale a dire mai messi in grado di recuperare veramente lo svantaggio culturale, fino alla elargizioni dello stesso diploma che viene consegnato a chi ha alla spalle una famiglia culturalmente debole. Con il risultato che il diploma diviene una attestato di cartapesta. Valer a dire che si esce dalla scuola con una preparazione inadeguata.
Le responsabilità di questo andazzo, nell’analisi di Contessi, risiedono  tanto nella politica scolastica che nella conduzione quotidiana. Da un lato, infatti, l’autonomia scolastica sembra essere stata impostata su criteri di produttività, che bada al numero e non alla qualità dei diplomati. Dall’altro, dentro le scuole, si realizzerebbe una sorta di congiura del silenzio, che vedrebbe presidi, insegnanti e genitori trastullarsi in un quieto vivere che conviene a tutti. Del che risentono negativamente la didattica, la valutazione, la possibilità di recuperare davvero i ragazzi in difficoltà, lo spessore culturale della vita scolastica, il bagaglio con il quale i ragazzi vengono alla fine congedati. Detta così, la sintesi è però semplicistica, perché, avverte Contessi, nella scuola vi sono anche tante buone pratiche e tanti insegnanti capaci e di buona volontà.
Occorrerebbe allora modificare radicalmente aspetti importanti dell’organizzazione scolastica. A cominciare da due aspetti tra loro connessi: lo status degli insegnanti, che dovrebbe svincolarsi dalla rigidità dell’orario attuale e dall’appesantimento burocratico degli adempimenti, e il tempo scuola, che dovrebbe vedere i ragazzi impegnati la mattina nella normale attività e il pomeriggio nel potenziamento e recupero. Con una didattica che veda anche classi aperte, la pratica del “tutoring”, uso intelligente del web. Ed altro ancora.
È una strada che si può percorrere, secondo Contessi, senza perdersi nell’indeterminatezza di sogni palingenetici: «Facciamo funzionare meglio quello che abbiamo e introduciamo criteri che aumentino la dose di eguaglianza di partenza tra tutti i ragazzi, il che costituirebbe quasi una mezza rivoluzione. Per l’altra metà del cielo c’è tempo».

L’incipit: Il ricordo, vivido a distanza di moltissimo tempo, di essere stati in un certo posto rivela l’importanza che quel luogo ha assunto per noi. Tutti i cittadini italiani hanno memoria della loro esperienza scolastica, sicuramente di alcune giornate, di alcuni insegnanti e, in moltissimi casi, dell’intero svolgimento dell’esame di maturità. Quell’esperienza ci ha visto attori, a volte protagonisti, a volte nel ruolo di semplici comparse, e anche un gradino più basso. Tanti si sono sentiti parte inconsapevole di una storia non scritta da loro, come se un narratore li avesse presi e ficcati in un romanzo senza che potessero sceglierne la trama. Come ci si deve sentire? Come al centro di un sistema che viaggia con il freno a mano tirato, senza che nessuno si fermi a riflettere su cosa accade effettivamente; o meglio, i registri scolastici sono colmi di parole e numeri che descrivono gli avvenimenti, ma che non riescono a coglierne il nocciolo. Allora, se la scuola rappresenta un tempo denso di storie, che spesso affondano come detriti, il compito che mi sono prefisso è quello di farle riemergere e dare conto di modi, buone pratiche oppure cattive abitudini.
Il tempo scuola non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza e si limita, così, a certificarle. Certo, non è più il sistema selettivo degli anni Cinquanta del secolo scorso, che aveva istituito un meccanismo a filtri con il compito di diplomare e laureare una classe dirigente che avesse  raggiunto la vetta del ciclo formativo (l’ 1% della popolazione adulta). Quel sistema certificava un’Italia di diseguaglianze sociali ed economiche che la scuola sottoscriveva, affermando che il figlio del meccanico doveva svolgere la stessa attività del padre perché non era portato per il calcolo e la scrittura. Oggi no. Il sistema scolastico tende a fornire diplomi facili a tutti coloro che frequentano, svuotando i titoli di peso reale, così da condannare i meno dotati alla disoccupazione, all’intermittenza professionale, come pure al clientelismo e all’incapacità dirigenziale. E costoro rappresentano quanti avrebbero potuto esser sostenuti, rinforzati e resi liberi attraverso un sistema formativo degno di questo nome.
Oggi, dunque, il problema non è tanto la differenza tra poveri e ricchi, ma tra figli di famiglie che danno valore all’istruzione e figli di famiglie per le quali l’istruzione non conta, aldi là del ceto e del censo.

L’autore: Roberto Contessi insegna storia e filosofia nelle scuole superiori. Dottore di ricerca in filosofia del linguaggio, si è occupato a lungo delle tecniche di semplificazione del testo per rendere la comunicazione maggiormente fruibile sia nei contesti pubblici (documenti amministrativi, giornali, Web) sia nelle situazioni di svantaggio. Tra le sue pubblicazioni, Linguaggio e percezione (Carocci 2002), La forma del linguaggio  (Meltemi 2003) e Laboratorio di scrittura creativa  (Aracne 2006).

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