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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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VOLGARE ELOQUENZACome le parole hanno paralizzato la politica, di Giuseppe Antonelli, Laterza, Bari-Roma, pp. 128, € 10,00

Il libro: Nata nell’antica Grecia come dottrina e pratica del vivere degli uomini in comunità, presentata miticamente da Platone come dono di Zeus ai mortali per porre termine all’insipienza e alla violenza nella vita pubblica, la politica -proprio in quanto inerente alle relazioni umane- è stata sempre indissolubilmente legata al linguaggio. A partire, per l’appunto, dalla Grecia, dove veniva vissuta in modo molto più crudo dell’idea “alta” che generalmente ne abbiamo, ma che ci diede i termini ancora oggi sparsi per il mondo (democrazia, monarchia, aristocrazia), per transitare a Roma, a cui dobbiamo la parola dittatura, per quanto nata con un significato diverso da quello che in seguito rappresentò, e via via -attraversare epoche, pensatori, forme statali che ne hanno segnato e arricchito il cammino. Alla elaborazione dottrinale e alla pratica reale si sono accompagnate anche corrispondenti retoriche, attraverso le quali le élite comunicavano con sudditi, cittadini, elettori.

Quanto le parole abbiano corrisposto ai fatti e ai comportamenti, è questione da sempre studiata e dibattuta. Spesso, in questo lungo cammino lo sforzo è stato di mantenere il linguaggio il più possibile esente dalla crudezza e dalla volgarità degli accadimenti. Cercando di dare dignità alle idee, magari di presentare i fatti sotto una luce migliore di quel che erano. Anche mistificando, certo. Ma a lungo, specie nei sistemi democratici, non si poteva sfuggire all’obbligo di manifestare un minimo di compostezza di linguaggio, di presentazione linguisticamente corretta di idee e proposte, di elaborazione culturale. Si chiedeva il voto anche presentandosi, o tentando di farlo, come portatori di un livello culturale, di una capacità espositiva, di una proprietà di linguaggio superiori alla media. Sembrava valere la convinzione che senza le parole è difficile pensare e che più parole si conoscono più è ampio il campo nel quale il pensiero può esercitarsi e dare frutti.
Questo insieme di legami viene oggi terremotato dall’irrompere sulla scena di nuovi modi di conduzione della vita politica e della comunicazione che li sostiene. Un modo nel quale le parole sembrano allontanarsi vieppiù dalle idee e nel quale coloro che esercitano la politica per temporanea o permanente professione sono dediti essenzialmente ad un certo tipo di narrazione: «Le parole mirano a colpire l’istinto degli elettori, i loro sentimenti. Le argomentazioni sono lasciate da parte, per puntare dritto alle emozioni». Insomma “emologisni” (parole con funzione di emoticon) che evocano il sentimento sul quale si intende fondare la propria fortuna politica (felicità, paura, disprezzo, rabbia). Parole da cavalcare.
Sullo stato delle cose in questo ambito, oggi in Italia, ci intrattiene Giuseppe Antonelli nel libro Volgare eloquenza, edito da Laterza. Si tratta dell’analisi condotta da un linguista brillante, che sa unire all’accuratezza dell’argomentazione e della esposizione, e all’angolo visuale dello specialista, uno stile che rende piacevole e gustosa la lettura e che stimola insieme la riflessione e (se dimentichiamo per un momento di quanto il problema pesi sulle nostre vite) anche il divertimento. Sì che -per fare un solo esempio tra i tanti che il libro ci fornisce- è in grado di spiegarci tanto i meccanismi del contrappasso dei «politici sconfitti da un comico al potere» che la composizione della lingua che ad essi si accompagna: «frammentazione sintattica, semplificazione lessicale, insistenza su alcune parole (e parolacce, in questo caso) ricorrenti» (meccanismi, detti per inciso, non esclusivi di casa nostra). E di mostrarci come la parolaccia, che -secondo alcuni studi scientifici- fa guadagnare voti, venga scientemente usata, di come la volgarità espressiva venga praticata non solo con la sicurezza dell’impunità elettorale, ma anche con la convinzione della sua efficacia. Una spregiudicatezza che alcuni “politici” mostrano anche nel ricorre consapevolmente agli strafalcioni grammaticali per insinuare di essere “parte del popolo”. E pensando, così di parlare all’ “uomo medio”. Si disvela, così, anche l’amara ironia del titolo, che chiama in causa Dante per mostrare come la nobiltà della nascita della nostra lingua venga in tal modo tradita.
Non è estraneo alla diffusione di questa volgare eloquenza, nota Antonelli, «lo spostarsi di gran parte del dibattito politico nell’ambito virtuale (ed emotivamente molto esposto) di Internet». Anche di questo linguaggio, come per tutto il resto, ci vengono forniti spunti di analisi e di riflessione di grande utilità, che dovrebbero trovar saldamente posto in una educazione alla cittadinanza all’altezza dei tempi. Così come stimolante è la messa in guardia tanto dalla demonizzazione della tecnologia quanto dall’assuefazione alla «mistica grillina» nella quale «si avverte la continuazione di quella mitologia che ha accompagnato la rete al momento della sua apparizione. Quella della rivoluzione digitale come rivoluzione non solo culturale e antropologica, ma anche politica». Perché -è la conclusione costruttiva di Antonelli- tutto resta nelle mani dell’uomo, che non deve abbandonarsi al «determinismo tecnologico» ed è in grado di ripensare tanto il messaggio che il linguaggio, purché parta «non dalle esigenze comunicative della rete, non dai dettami del marketing politico o dai risultati dell’ultimo sondaggio, ma dall’analisi della realtà». Smettendola di «usare parole senza le cose». Un programma all’apparenza semplice, ma -dati i tempi- assai ambizioso, in quanto richiede l’elaborazione di un linguaggio nuovo che, a sua volta, non può nascere senza un nuovo progetto politico. Per proseguire nel modo migliore il cammino di politica e linguaggio che da sempre, nel bene e nel male, procedono uniti.

L’incipit: «Siamo felici di esser qui con voi, siamo felici di essere insieme qui a Torino per ripartire insieme per un’avventura straordinaria»: Così Matteo Renzi ha aperto il discorso con il quale – dopo la pesante sconfitta al referendum, dopo le dimissioni da presidente del Consiglio, dopo la scissione di una parte del suo partito – apriva la campagna per essere confermato segretario del PD. L’avventura continua. Come nel sequel di un film. Come nella nuova stagione di una serie televisiva. Come nel prossimo giallo del nostro detective preferito. E la promessa è ancora una volta che sia straordinaria, perché altrimenti non varrebbe la pena raccontarla.
Le prime sparute apparizioni dell’anglicismo storytelling in testi italiani risalgono all’inizio degli anni Settanta. Proprio nel 1971, in un numero della rivista «Studi americani», si legge: «la televisione, la radio, il cinema stanno sostituendo, a poco a poco, la più antica e diffusa forma di divertimento: l’arte dello storytelling».
Quell’arte sarebbe tornata impetuosamente di moda qualche decennio dopo. E avrebbe invaso prima il campo della pubblicità poi quello della politica. Rendendoli sempre più simili l’uno all’altro. Entrambi dominati dai contastorie, i maestri del nuovo storytelling. Un racconto che non vuole più soltanto intrattenere, ma mira a influenzare la percezione di chi ascolta o guarda o legge. A motivare e convincere, a persuadere, a creare desideri e affermare valori.
[…] Affabulazione viene dal latino fabulare, che voleva dire «parlare». Ma -appunto – quello è anche l’etimo di favola, di fiaba e di fola «bugia, fandonia». Troppo spesso la politica ci racconta le favole che vogliamo ascoltare. E noi, come bambini, amiamo sentircele ripetere. E le ripetiamo noi stessi ai nostri amici, nella speranza che piacciano anche a loro. E che anche loro le raccontino a qualcun altro.
[…] De te fabula narratur: questa storia parla anche di te, sembra dirci – con l’Orazio delle Satire -ogni politico dei nostri tempi. L’importante è solo trovare le parole giuste. Le parole che risuonino in ognuno di noi: Le parole che ci facciano proiettare in quel racconto la nostra esperienza. De te fabula narratur, il mio discorso, il discorso che ti sto raccontando, parla proprio di te. E -per dimostrartelo – uso le parole che useresti tu, mio caro elettore: parole banali, parole alla moda, parolacce, strafalcioni. Ti ci vedi, mio caro elettore? Ti ci rispecchi? Ti fa sentire importante tutto questo? Al centro dell’attenzione? De te fabula narraur. Tu credici. E votami. O, almeno, mettimi un «mi piace».

Il risvolto: Giuseppe Antonelli ci accompagna alla scoperta del ‘politicoso’, un linguaggio urlato, elementare e artificialmente popolare che ha fatto irruzione nelle nostre case, rimbalzando all’impazzata tra televisione e social network. I politici hanno adeguato il loro linguaggio a quello dei destinatari, accogliendo un lessico ad alta frequenza e con costruzioni sintattiche piane: è il passaggio dal paradigma della superiorità a quello del rispecchiamento. Irene Cagliero, “L’Indice”


Oggi a dominare il discorso politico sono gli ‘emologismi’ e cioè parole, frasi, formule che funzionano come emoticon e che sembra abbiano occupato tutto lo spazio, anche quello del pensiero. A ogni condivisione diventano più pesanti, ma intanto perdono il loro peso specifico. Un esempio per tutti: ‘onestà’. 
Paolo Conti, “Corriere della Sera”

Oggi l’eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall’uso distorto della parola e del concetto di popolo. L’italiano populista ostenta una popolarità artificiale e orgogliosamente becera. Puntando sul politicamente e sul grammaticalmente scorretto, usa turpiloquio e strafalcioni come nella retorica classica si usavano gli ornamenti stilistici.

                                                                               

L’autore: Giuseppe Antonelli, insegna Storia della lingua italiana all’Università degli Studi di Cassino, collabora all’inserto La Lettura del Corriere della Sera e racconta storie di parole su Rai Tre. Tra i suoi ultimi libri: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. L’italiano come non ve l’hanno mai raccontato (Mondadori, 2014), La lingua in cui viviamo. Guida all’italiano scritto, parlato, digitato (Rizzoli, 2017) e Il museo della lingua italiana (Mondadori, 2018). Per Laterza ha, tra l’altro, curato il libro intervista con Luciano Ligabue, La vita non è in rima (per quello che ne so) (2013).

 

 

 

 

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