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SI SICE NON SI DICEL’italiano giusto per ogni situazione
di Silverio Novelli
Laterza, Roma-Bari, pp. 200, € 16,00

Il Libro: Il numero di persone che affidano il proprio pensiero, o il proprio umore, alla scrittura è in costante crescita. Soprattutto è aumentato coloro che lo fanno in pubblico, informandoci di sé, di quel che pensano, di quel che fanno, di quel che cucinano, di quando vanno al mare, di cosa pensano sulla coltivazione delle cucurbitacee nell’Asia tropicale e su molte altre fondamentali questioni1. Questa scrittura, diciamo così, pubblica si concede spesso licenze grammaticali e sintattiche un tempo inimmaginabili. Qualche volta rappresentano una vera e propria aggressione alla lingua. La circostanza dipende, probabilmente, dalla natura “informale” dei social network, dalla velocità con la quale si elaborano pensieri (o,meglio, reazioni agli stimoli) e informazioni, oltre che dalla disinvoltura di molti frequentatori, che non nutrono alcuna ambizione verso la bella scrittura. Una velocità e una disinvoltura che non vengono risparmiate neanche al parlato, come ad esempio nel caso di diversi “commentatori tecnici” di trasmissioni sportive, che inaridiscono la lingua riducendo il lessico a poche ritrite espressioni e, in qualche caso, non fanno concordare soggetti e predicati nemmeno sotto minaccia di tortura. Per non parlare dell’uso disgiuntivo dell’avverbio piuttosto2 (uso che, ormai è diventato una vera epidemia, contro la quale non sembra si riesca a trovare un vaccino appropriato).
Ma anche chi questa ambizione la nutre, o almeno vorrebbe evitare strafalcioni, si trova spesso a dover districare dubbi e ambiguità che la lingua italiana sembra portare nel suo Dna (per esempio è corretto usare il “la” in questo periodo; cioè: si può dire «chi questa ambizione la nutre» o bisogna dire «chi nutre questa ambizione»; quel “la” ha valore di pronome dimostrativo abusivo, in quanto dovrebbe stare per un nome, “ambizione”, che in realtà è già espresso, e per di più, già in compagnia dell’aggettivo dimostrativo “questa”?). L’esercizio della lingua italiana è costellato di dubbi come questo ma, anche e soprattutto, di tanti piccoli e grandi indecisioni che ne caratterizzano l’uso quotidiano.
A dare una mano a chi non naviga con beata incoscienza nel mondo delle parole interviene con questo libro –forte anche della sua esperienza di collaboratori della Treccani- Silverio Novelli, che affronta i dubbi più frequenti nei quali ci si imbatte parlano e scrivendo adottando una “mappa tridimensionale”: «Moltissimi sì e no –si legge nella presentazione del libro- in effetti dipendono da una serie di fattori: dalla situazione, dal mezzo di comunicazione, dall’interlocutore, dal tipo di testo, dagli effetti che si vogliono ottenere». Ne consegue, ad esempio, che A me mi piace sarà proibito in alcune situazioni e consentito in altre: «Al ragazzo della V B e al senatore della Repubblica diremo no: nel tema sui Sepolcri, nell’intervento a Palazzo Madama, non è proprio il caso di esprimersi così. Ma alla persona che chatta in rete, al romanziere che ricrea il dialogo tra due amici diremo: , va benissimo».
Una obiezione a questo “relativismo linguistico” si può certamente fare: va bene per il romanziere che riproduce il dialogo tra due persone che si esprimono in quel modo, ma è proprio necessario consegnare i social network, gli sms e le consimili forme di comunicazioni ad una sorte di terra di nessuno grammaticale e sintattica? A latere, si potrebbe osservare che anche la cortesia dei rapporti fra le persone ne esce maltrattata: l’aridità espressiva, oltre che sottoporre a frequenti shock la lingua, di solito esclude saluti ed espressioni garbate.
Ma, al di là di obiezioni come queste, che forse marciano in ritardo sui tempi, si può certamente convenire sull’idea che la lingua ha una vita a più dimensioni, non può essere cristallizzata e accompagna in modo vitale l’evoluzione delle culture e delle società. Così come è vero che non esiste una interpretazione unica e rigida delle regole del parlare e dello scrivere: «La grammatica non è piatta: la lingua ha, come i parlanti che la abitano, una sua profondità che è utile e bello cogliere».
Infine: il libro assomma la profondità del conoscitore della materia e la brillantezza del giornalista. Ne risulta una lettura gradevole e divertente.
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Si è persino verificato che qualcuno vi abbia annunciato l'assassionio che stava per commettere. Ma questo, ovviamente, non suscita alcuna ironia. Solo racccapriccio.
2 Vedere, a tale proposito, l'incipit qui sotto.

L’incipit: Prima di tutto, don’t panic. Niente panico, intanto, per l’uso dell’inglese, così a brutto muso, all’inizio di un libro dedicato alla lingua italiana, un libro che ha scelto di raccontare la grammatica in 3 D, tre dimensioni: quella del  (bisogna dire o scrivere proprio così, facciamocene una ragione), quella del no (così non va e non ci si pensi più!), e quella –centrale- del dipende (per ora ne taccio).
Niente panico. 
Don’t panic, anche se è difficile non farsi prendere dal panico. Metti che ha fatto brutto tempo. Ha piovuto o è piovuto? Ha nevicato o è nevicato? Ha grandinato o è grandinato? Posso usare indifferentemente l’ausiliare essere e l’ausiliare avere con i verbi metereologici? Magari, se sbaglio, verranno sette anni di pioggia, neve e tempesta, come dopo che si è rotto uno specchio. Invece, sono lieto di comunicarvi che sii può usare sia il verbo essere, come indica la tradizione normativa, sia il verbo avere, come suggerisce la norma rinvigoritasi con l’uso –un uso, peraltro, non recente-. Se la faccenda vi sta a cuore, capirete come in questo caso sia la prima dimensione –governata dalla grammatica del - a far valer le proprie ragioni. Andate ad approfondire la faccenda del maltempo e dei verbi alle pp. 113-14.
Ripeto: niente panico, 
don’t panic, anche quando è difficile non farsi prendere dal panico. Specialmente se si ha ragione. Hanno ragione, per esempio, quelli che ci rimangono male, molto male, fino a sentirsi male, se si imbattono in una frase del genere: «La sera mi piace andare al cinema, piuttosto che prendere una pizza, con gli amici, piuttosto che fare una passeggiata al centro, piuttosto che…». Sempre più persone usano questo piuttosto che in modo che vent’anni fa sarebbe stato impensabile. Non bastava e avanzava il buon vecchio o..o…o…? Anche Vasco, che non si è laureato alla Bocconi di Milano ma al “Roxy bar” di Zocca, sa bene che piuttosto che non ha valore disgiuntivo, bensì avversativo o comparativo; come avversativo significa ‘ invece di ’, ‘ anziché’ , come comparativo significa ‘ più che ’, ecco qui Vasco: «Piuttosto che morire immobile/meglio morire di te…» (Domani sì, adesso no!, 1985). Andate a leggere alle pp.163-65 per sentirvi a vostro agio nella dimensione del no.

L’autore:Silverio Novelli, giornalista e lessicografo, lavora ai contenuti della sezione “Lingua italiana” del portale Treccani.it, rispondendo – tra l’altro – ai quesiti grammaticali inviati dagli utenti. Ha collaborato alla terza edizione del Vocabolario Treccani e, con Gabriella Urbani, ha curato due dizionari di neologismi:Il Dizionario Italiano: parole nuove della Seconda e Terza Repubblica (1995) e il Dizionario della Seconda Repubblica: le parole nuove della politica (1997)

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