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(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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di Nando Cianci

Più di cent’anni fa, il sindaco di Faenza emise un’ordinanza per impedire lo svolgimento di un raduno di ciclisti, indetto nella sua città dallo scrittore Alfredo Oriani, perché «quell’arnese su due ruote rappresentava una grave minaccia per l’incolumità pubblica: si temevano gli scarti dei cavalli, la curiosità dei bambini, lo spavento dei vecchi». L’episodio, riferito da Sergio Zavoli nel suo Il ragazzo che io fui è gustosamente indicativo di come le novità tecnologiche abbiano fatto irruzione nella nostra vita quasi sempre accompagnate da una certa ambivalenza:

la speranza che avrebbero indotto miglioramenti nelle nostre condizioni di vita e il timore che avrebbero arrecato sconvolgimenti alla nostra consolidata quotidianità.

 Nessuna meraviglia, dunque, che anche le nuove tecnologie digitali siano accompagnate da ansia e speranza, timore e meraviglia. Da una ambivalenza, cioè, che ci prende soprattutto quando vediamo figli o nipoti muovere freneticamente le dita per pigiare o sfiorare tasti e immagini. Con le inevitabili esagerazioni: c’è chi guarda estasiato il bimbo cliccante come fosse Schubert che compone al pianoforte e chi scuote il capo perplesso come di fronte ad una diavoleria.

Ci sono, però, notizie che destano interrogativi consistenti anche in chi vede l’avanzare della tecnica con disincanto. Come quella, ad esempio, che ci informa di come il tablet sia uno strumento che taluni cominciano a far usare ai propri figli sin dall’età di sei mesi (1). Qui non siamo più di fronte solo alle esagerazioni di quei genitori, presenti in tutte le epoche, che cercano nel figlio lo spuntare di un genio precoce. Siamo, invece, di fronte, alla possibilità di indurre –con queste pratiche non del tutto sensatamente proposte ai lattanti-  una possibile mutazione antropologica di cui non è del tutto possibile calcolare gli effetti. Perché il cervello, è persino banale dirlo, crescerebbe sottoposto a stimoli che –nella durata, nell’intensità e nella qualità- sarebbero del tutto  differenti da quelli legati al ritmo biologico dell’uomo, che ha tempi assai più lunghi e conosce percorsi di formazione, di osservazione, di costruzione delle relazioni con le altre persone e con il mondo esterno che non sono commisurati sulla durata dell’istante, come invece avviene nella reazione allo stimolo delle apparecchiature digitali. Percorsi che durano, invece, anni e che portano allo sviluppo di facoltà che di tempo hanno bisogno: l’immaginazione, la creatività, la costruzione logica, la capacità di cogliere le sequenze della vita nel loro insieme. Una massa eccessiva di stimoli, e per di più in età in cui le fasi dello sviluppo sono appena all’inizio, comportano il pericolo di una perenne eccitazione emotiva che sacrifica lo sviluppo delle facoltà legate alla riflessione e alla immaginazione autonome.

          Non si tratta più, qui, delle biciclette di Oriani. Si tratta di una questione che va certamente affrontata senza il superstizioso timore delle novità. Ma che va vista anche senza la spensierata fiducia che la tecnica, quasi fosse dotata di una metafisica capacità di volgersi al bene, ci porterà inevitabilmente verso un mondo migliore. E neanche con la rassegnazione che così è e non possiamo farci nulla.

          In tale campo l’educazione ha ancora molto da dire: l’uso delle nuove tecnologie è un campo che va esplorato con animo aperto e volto alla ricerca. Non con quello, sia detto di passaggio, di chi pensa che basti spalmare un tablet qui e là, nelle nostre scuole, per fare una “rivoluzione”. Ci sarà anche un motivo se, nel gennaio scorso, oltre 400 studiosi di tutto il mondo hanno lanciato l’allarme firmando una lettera in cui si afferma l’esigenza di regolare l’intelligenza artificiale, per trarne da essa tutti i benefici possibili ed evitare che prenda il sopravvento sull’uomo. I firmatari, sarà bene ricordarlo, non sono “catastrofisti” ostili alla scienza, ma scienziati impegnati in varie ricerche, compresa quella sull’intelligenza artificiale.

          L’uso dei tablet da parte di bambini in fasce, dunque, solleva problemi che il buon senso e la scienza sembrano guardare in modo coincidente, per quanto da angolazioni diverse. E’ fondamentale che anche la scuola e le famiglie facciano la loro parte in questa ricerca. La prima affrontando in modo aperto ed intelligente, ma non subalterno o rassegnato, il campo dell’utilizzo delle nuove tecnologie. Senza mai dimenticare che esse non possono stare in cattedra al posto degli insegnanti in carne ed ossa. Possono essere usate, non sostituire la relazione umana, senza la quale non si dà educazione.  Le seconde ricordando che per la crescita equilibrata dei bambini sono necessari tempi e ritmi biologici che escludono bombardamenti continui ed ossessivi di stimoli. E deponendo l’illusione che prima si cominciano ad usare certi strumenti e più bravi si diventerà nella vita. Non basta mettere un tablet nella culla, per costruire una persona capace di muoversi nell’universo digitale. Pensare il contrario sarebbe come abituare un bimbo di sei mesi ad assaggiare vini nella speranza che da adulto diventi un affermato enologo.

 

(Parte di questo articolo è stato pubblicato su il Centro del 29 aprile 2015)

_________________________________

(1) Una ricerca recentemente svolta negli Usa ha rilevato che un bambino su tre comincia ad usare un touch screen a meno di un anno.

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