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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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LA STRAGE DEI CONGIUNTIVIdi Massimo Roscia
Exòrma, Roma, pp. 324, € 15,50

Il libro:
Lapidario nella condanna del pressappochismo linguistico, tranchant e rigoroso nell’individuare e denunciare le sempre più diffuse pessime abitudini di chi maltratta la lingua italiana con sistematica sciatteria e al contempo narrazione gradevole, colma di ironia sottile e humour “alto”: è romanzo straordinario come pochi, La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia, per i tipi di Exòrma.
Cercando un comodo e necessariamente riduttivo incasellamento in un genere lo si potrebbe fare facilmente far accomodare nella folta schiera dei noir: la trama gira infatti intorno alle disavventure di cinque personaggi singolari che uniscono le loro forze per difendere l’ “Ars Grammatica” tramite  un atto dimostrativo di grande impatto. Questi insospettabili eroi – il protagonista principale Dionisio e i suoi sodali, un analista sensoriale, un bibliotecario, un dattiloscopista della polizia e un professore di letteratura sospeso dall’insegnamento a tempo indeterminato– coltivano un loro

condivisibile ideale: richiamare l’attenzione pubblica sull’ormai non più deferibile necessità di condannare il diffuso imbarbarimento e depauperamento della lingua italiana. Vittima designata dell’azione dimostrativa sarà, molto opportunamente, un politico di bassissimo rango e intelletto, un insipiente assessore comunale alla cultura di paese.  
Questo esile canovaccio si fa utile pretesto per Massimo Roscia (scrittore, critico enogastronomico, docente, condirettore editoriale del periodico Il Turismo Culturale) per imbastirvi sopra trecento pagine in cui si inanellano a ritmo serrato esempi ripetuti e veritieri delle peggiori nefandezze linguistiche entrate ormai a far parte del quotidiano, perpetrate anche proprio da chi per ruolo pubblico dovrebbe invece avere a cuore le sorti dell’italico idioma, un assessore alla cultura, appunto; è da un suo esemplare discorso in pubblico che si dipana la vicenda: “Signore e signori, desitero farci  un calorosissimo benvenuto, a nome dell’amministrazione comunale e dei sottoscritti, a questo interessantissimo appuntamendo  – esordisce, introducendo una manifestazione tra le tante da lui personalmente curate (come le “svariate mostre di franchibolli”) e proseguendo coerente con un – permettetemi di ringraziare prima di tutti, il nostro carissimo sintaco per averci messo a disposizione questa bellissima sala convegni, poi i gentilissimi sponzor per averci collaborato in maniera attivissima alla buonissima riuscita dell’evendo…il titolo che abbiamo scelto per questo interessandissimo convegno è Cogido ergo sun”. 
Lo scalcinato intervento in bassissimo politichese innesca una reazione del protagonista principale, un bibliotecario che rabbrividisce al solo suono della “sconsiderata favella” e ne denuncia il fastidio che questa gli provoca: “Raccapriccianti errori fonetici, irripetibili aberrazioni lessicali, presunte qualità indiscriminatamente espresse al massimo grado da quegli assurdi superlativi assoluti, così soverchi e cacofonici, che si riproducono per patogenesi e sovraffollato fastidiosamente il periodo. Sadiche sevizie inflitte alla grammatica, dolosi e reiterati oltraggi all’intelletto”, accompagnati “da una pausa e un inchino ruffiano” dei presenti, molti dei quali chiaramente “dipendenti dell’assessorato cooptati all’ultimo minuto dietro minaccia di provvedimento disciplinare.” 
Ma le perle di stoltezza dell’assessore “futura vittima” non sono che l’inizio: da qui, in un effetto domino di rara ironia, assisteremo impotenti a dialoghi divertenti zeppi di valanghe di congiuntivi invertiti con condizionali, verbi intransitivi che diventano transitivi a discrezione dell’utilizzatore, reggenze errate, insopportabili  “attimini”, conferenze stampa convocate “a doc”,  vari “parlevamo” e “vedavamo”.  
La denuncia va ben oltre l’uso disinvolto del congiuntivo del titolo: si rimarcano i tanti quarto, quinto, sesto puntino di sospensione dopo i tre regolamentari; il lessico privo della bellezza di un sinonimo, ma “ricolmo di fare, cosa, molto, bello… importante, che miracolosamente diventa aggettivo universale, adatto a persone, eventi, luoghi, attitudini e capacità, buono per ogni stagione”; i “coscenza”, “pultroppo”, i “quà”; le frasi “incomplete, tratteggiate…frammentate, aride, incoerenti, irrelate, figlie di un orizzonte lessicale assai limitato, di una nuova economia linguistica, di una semplificazione eccessiva”. 
Una vera “mattanza linguistica” frutto “di un’ignoranza dominante”, un depauperamento che ha le dimensioni del “virus pandemico” e che tocca tutti gli strati di una società italiana marcia fin dalle basi, un declino le cui cause vanno ricercate anche in una scuola che mortifica docenti, toglie motivazione agli studenti, accoglie come in un parcheggio a tempo ragazzi ormai “spenti”, “individui subnormali totalmente refrattari allo studio, alla disciplina, alla verità.” 
Urge dunque trovare una soluzione drastica e in tempi rapidi: prende così le mosse il patto di vendetta dei cinque protagonisti, che adottano colti nomi di battaglia a sottolineare l’abbraccio totale alla causa e partono ad uccidere l’”assassino della cultura” senza remore né tentennamenti: vanno “giù, con la sfida negli occhi e la bestemmia tra i denti”. 
La riacquisizione della dignità linguistica perduta passa attraverso un complesso gioco di narrazioni parallele, di incroci di punti di vista dei vari personaggi di cui Roscia riesce a mantenere il controllo con buona efficacia.  (E oltre ai colpi di scena tipici del noir, ci offre una chiave di lettura  più alta, con i rimandi a opere classiche e non, in numero elevatissimo, racchiusi nelle note, che tracciano un percorso del sapere che si fa trama doppia, alternativa, godibilissima). 
Una vera crociata contro un imbarbarimento che è esclusivamente verbale soltanto in superficie, ma che scavando appena sotto la patina sottile assume toni di indignazione civile a 360 gradi: perché, a dirla tutta, conclude con amarezza il protagonista: “Il parlare impreciso e ambiguo non è soltanto sconveniente in sé stesso, ma nuoce gravemente anche allo spirito… Sono le tue parole, caro assessore, a renderci tutti più poveri, più deboli, più tristi, più disgustati, più estranei, più vinti.”
(recensione di Anna Vallerugo; dal sito www.satisfiction.me)

 

L’incipit:  Acetato di feniletile. Sembra essere proprio acetato di feniletile. Le palpebre esitano, timidi boccioli al sole di un’avara primavera che s’attarda a concedersi. Le dischiudo dopo averle sbatacchiate più volte, in maniera goffa e frenetica, come le ali di una crisalide che ha appena indossato l’abito elegante della farfalla ma non sa ancora bene cosa farsene. Metto a fuoco lentamente le prime immagini opalescenti e trascino lo sguardo verso sinistra, con sofferta indolenza. Eccole. La parola –con quella particella pronominale finale, flaccida e atona, abbottonata stretta all’avverbio- mi sfugge dalla bocca e riecheggia monodica come un canto gregoriano. L’ominide brufoloso che mi siede accanto borbotta non so cosa, mi scruta tra il sorpreso e l’irritato, mi trafigge con uno sguardo bieco, animoso, reso aguzzo dal disprezzo, poi molla la presa facendo spallucce e liquidandomi definitivamente con uno sbuffo altezzoso.
Eccole lì, ripeto abbassando opportunamente il tono della voce. A sei metri, forse sette. Su una scrivania similvittoriana, incastrato tra una pila stratificata di faldoni usurati da diverse generazioni di dita impiegatizie e il fondoschiena impolverato di un monitor sconfitto dal tempo e cateterizzato con cavi aggrovigliati, sta un vecchio vaso di porcellana con qualche foglia eziolata e cinque rose rosse ingobbite e imploranti. Andrebbero innaffiate, poverine. La dattilografa, dai boccoli vaporosi, le labbra perfidamente sottili e i modi civettuoli –un mirra/narciso 57, a occhio- sembra curarsi più del carminio artificiale delle sue lunghissime unghie smaltate, che del colore naturale ormai smunto dei fiori. Un petalo screziato si stacca e cade malinconicamente a terra trascinandosi dietro un carnoso e aulente ricordo. Nell’indifferenza generale la suola in tecnofibra di un passante lo calpesta, trasformandolo in poltiglia rossastra e rendendo la scena,nel suo insieme, ancor più triste. La bellezza sta morendo, ma nessuno sembra accorgersene.

 

L’autoreMassimo Roscia è nato a Roma nel 1970. Scrittore, critico enogastronomico, docente, condirettore editoriale del periodico “Il Turismo Culturale”. Autore di romanzi, saggi, ricerche, guide e vincitore di diversi premi letterari, ha esordito nel 2006 con “Uno strano morso ovvero sulla fagoterapia e altre ossessioni per il cibo”. Da qualche anno insegna comunicazione, tecniche di scrittura emozionale, editing, letteratura gastronomica e marketing territoriale.

 

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