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(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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di Nando Cianci

Costruito con ossa di animali, corna o avorio, il flauto accompagna il cammino  umano almeno dal Paleolitico, declinato in diverse varianti, da quello di Pan (a canne), a quello traverso a quello dolce. Quest’ultimo, da diversi decenni, conosce una rigogliosa fortuna nella scuola secondaria di primo grado (nome faticosissimo che sta ad indicare la scuola media di una volta), dove spadroneggia nell’insegnamento della musica.
Pur oggetto di molte e autorevoli contestazioni, da parte anche di musicisti assai noti, l’uso di questo strumento introduce da decenni i

nostri ragazzi alla pratica della musica. E addolcisce l’atmosfera delle nostre scuole in quelle mattinate che, per ragioni varie, si presentano un po’ grigie e sonnacchiose.
   Anche ad uno strumento così nobile e di così illustre storia può capitare, però, di sottostare a qualche uso improprio. Per esempio, invece che a ingentilire l’animo di un alunno, a essere usato per colpirlo in testa, come è accaduto tempo fa in una scuola media di Vasto, in Abruzzo, ad opera di un docente non pienamente presente a se stesso in quel momento. Un caso probabilmente non isolato, ma che è balzato, come suol dirsi, agli onori della cronaca perché l’insegnante in questione è stato poi condannato  ad un anno e sei mesi per maltrattamenti.

  Mettendo da parte le facili ironie che potrebbe suscitare, la vicenda ripropone, al di là degli aspetti penali che pur sono molto seri, un problema della scuola italiana al quale oggi si desta un’attenzione parziale e limitata.
   I dibattiti in corso, particolarmente quelli attinenti alla cosiddetta Buona scuola, ma non solo, si concentrano soprattutto sull’ingegneria istituzionale: quali e quante materie studiare, quante ore dedicare ad ognuna, quale ruolo far assumere all’inglese e all’informatica in rapporto alle esigenze produttive, al mutare dei tempi e dei linguaggi prevalenti nelle nuove generazioni. Tutti aspetti sommamente importanti, che però spesso lasciano nell’ombra una questione decisiva per la vita della scuola e per la ripercussione che la formazione ha nei comportamenti individuali e sociali dei ragazzi una volta terminati gli studi: quella di come si sta in classe. Vale a dire della formazione degli insegnanti. Di che cosa vanno a fare in classe e di come instaurano la relazione educativa.  Relazione che resta alla base di ogni possibilità di azione educativa, perché le nuove tecnologie, la didattica online, insegnanti ed esperti che parlano ai ragazzi da uno schermo possono avere una indubbia utilità. Ma non potranno mai sostituire la presenza viva dell’insegnante, indispensabile a garantire elementi essenziali della formazione. Per esempio:
l’abituarsi alla gentilezza, al confronto dialettico, alla gestione del conflitto tra le persone e tra le generazioni, allo sviluppo del senso critico (basta gettare uno sguardo alle dispute su facebook, basate per lo più sugli insulti ed ostili ad ogni ragionamento, per capire di quanto bisogno ci sia di tutto ciò).
   Ma proprio questo ruolo assegna al docente una responsabilità di alto profilo, alla quale non di rado non è preparato, come dimostrano gli episodi di maltrattamenti, ma anche aspetti più quotidiani e “normali” della vita di classe. Per essere all’altezza di questo compito bisogna saper esercitare una capacità fondamentale nella relazione educativa: l’ascolto. Non pochi insegnanti, a tale riguardo, inciampano su un presupposto errato: che l’ascolto sia un compito esclusivo dei bambini e dei ragazzi, che devono stare buoi e zitti e, perciò, ascoltare. In realtà l’ascolto è questione che riguarda soprattutto gli educatori e consiste nell’entrare in sintonia con il mondo di chi si vuole ascoltare, per coglierne i messaggi profondi, spesso non espressi verbalmente. Una dimensione, cioè, che consente di “sentire” gli alunni sia che pronuncino parole, sia che parlino il linguaggio del corpo e dei comportamenti, sia che appaiano immersi nell’apatia.

E’ un esercizio che richiede molta pazienza. In ciò va detto, gli insegnanti non sono aiutati da un sistema scolastico che ha l’ossessione del produttivismo, del misurare continuamente le prestazioni ed i “risultati”. Un sistema che dimentica che l’educazione è il tempo della semina, non del raccolto. E il seminatore deve avere pazienza, perché i raccolti che arrivano troppo presto sono effimeri. Sono come i giardini di Adone che Platone ricorda nel suo Fedro, vale a dire bacinelle, canestri o semplici conchiglie in cui d’estate si piantavano dei semi che, per la calura, nascevano e crescevano in otto giorni, ma poi appassivano repentinamente senza dare frutti. Sotto questi impulsi, molti insegnanti sono spinti a guardare all’apprendimento come ad una faccenda che attiene esclusivamente all’intelletto. In realtà l’intelletto interviene dopo che l’ apprendimento è stato messo in moto nella sfera emotiva, dopo che si sono creati interesse ed emozione verso l’oggetto della conoscenza. E, qui torniamo al punto, per l’attuazione emozionale del processo di apprendimento è fondamentale  la capacità di relazione del docente, la sua apertura a cercare nell’animo del ragazzo non solo la luce dell’intelletto ma anche la presenza delle passioni, dell’istinto, della natura in tutta la sua scomoda ricchezza.
   Sono questi alcuni degli ingredienti fondamentali del processo educativo che oggi appaiono in ombra e sui quali andrebbero formati gli insegnanti. Certo, è giusto prestare la dovuta vigilanza ai comportamenti che superano il limite del tollerabile fino al punto di meritare sanzioni. Ma se si vuole fare in modo che i flauti non vadano più a colpire le teste degli alunni, che i ragazzi non siano presi in giro anche da chi sta sulla cattedra, che problemi più o meno gravi che i ragazzi portano con sé non anneghino nell’indifferenza degli educatori, è a quella formazione che bisogna guardare. Molti docenti, per strade proprie, sono già pervenuti a questa consapevolezza e praticano relazioni educative ricche e feconde nel loro lavoro in classe. Ma occorre mettere in grado tutti gli insegnanti di elevarsi a questa visione alta del loro lavoro e dei loro conseguenti comportamenti pratici.

(Rielaborazione di un articolo pubblicato sul quotidiano
il Centro del 26 gennaio 2016)

                                            

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