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La scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più
(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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FERRONIdi Giulio Ferroni
Salerno Editrice, Roma, pp. 124, € 9,90

Assediata da una realtà esterna invadente e petulante, che vorrebbe assegnarle il compito di mettere le nuove generazioni “al passo con i tempi”, la scuola viene vista sempre di più come un luogo funzionale alla cosiddetta società liquida, quella che non si richiama a principi duraturi e che mettano in grado di tener ferma la bussola, ma si abbandona allo scorrere acritico di quanto viene “spontaneamente” prodotto dal mercato, supremo regolatore degli avvenimenti del mondo. Sicché proliferano le richieste di adeguarsi a meccanismi, linguaggi, relazioni,

evaporazioni di tempo e spazio che caratterizzano l’ossessione informatica e digitale che sembra essersi impadronita di fasce consistenti di pedagogisti e della pressoché totalità di politici, economisti, imprenditori e altri attori sociali. Di qui il diluvio, sulla scuola, di propositi sintetizzati da slogan, formulette e provvedimenti, come quello delle tre “i” (inglese, internet, impresa) o della “buona scuola”, che presentano molti aspetti tra loro concomitanti. E, di conseguenza, l’imperversare delle smanie di passare alla storia che caratterizza quasi tutti i governi degli ultimi decenni, ognuno con la sua “riforma epocale” da affermare. Riforme che poi sono attuate a smozzichi e bocconcelli, cioè in aspetti parziali, sicché finiscono con l’affastellare sulla scuola solo grovigli burocratici che ne appesantiscono l’azione, dirottando le energie di insegnanti e dirigenti verso adempimenti formali che poco hanno a che vedere con l’insegnamento e l’apprendimento.

Muove da una serie di impietose osservazioni di questo genere La scuola impossibile (Salerno editrice), il libro  –denso, lucido e razionalmente appassionato- di Giulio Ferroni, storico della letteratura che riflette però da sempre anche sull’andamento del nostro sistema scolastico (rimane ancora attuale, ad esempio, un altro suo lavoro, La scuola sospesa, uscito nel 1997 da Einaudi).

La forma che oggi assume l’ossessione della riforma è quella di una presunta oggettività, che dovrebbe essere misurata da test e artifici vari, per la certificazione di prestazioni che tendono alla formazione di giovani devoti al valore della competitività, più vicini –quali che siano le intenzioni proclamate dal legislatore- allo status di cliente e consumatore che a quello di cittadino. E la via per la quale questa formazione transita è data dall’assolutizzazione dell’informatica, dall’assegnare agli strumenti del digitale virtù taumaturgiche, per le quali i giovani perverrebbero ad una apprendimento caratterizzato da autonomia, responsabilità e libertà. Una via del tutto illusoria, per diverse ragioni che Ferroni illustra con dovizia di argomenti e con analisi puntuali e circostanziate dei processi in atto e delle azioni politiche di cui la scuola è oggetto. A partire dalla disamina minuziosa del documento a tutti noto come “La buona scuola”.

Alla base c’è l’assenza, da parte dei “riformatori” di vari colori che si sono succeduti nei decenni, di  «uno sguardo organico», di  «disegni culturali di ampio raggio», che deriva, a sua volta, dal non aver approfondito l’analisi dei grandi mutamenti in atto dalla seconda metà del Novecento, delle loro conseguenze sull’esplosione delle innovazioni tecnologiche, sull’economia e sui modelli di consumo. La mancanza di questa analisi –che invece Ferroni svolge per presentare la sua idea di scuola- ha portato ad una accettazione della riduzione della conoscenza a comunicazione, che nel mondo attuale si identifica praticamente con la pubblicità. Per questa via si procede alla già richiamata eclissi del cittadino in favore del consumatore. Con un grande ruolo giocato, in tale processo, dall’avvento del digitale, di cui –va detto- Ferroni non misconosce l’utilità e l’importanza, anche come strumento per la formazione, ma di cui critica l’assolutizzazione, l’averne  fatto il linguaggio predominante e colonizzatore di tutti gli altri. Con l’attribuzione di poteri magici alla rivoluzione informatica nella scuola, si realizza anche una indifferenza ai contenuti dell’insegnamento che mette fuori gioco le millenarie acquisizioni culturali costituenti l’immenso patrimonio che dovrebbe invece essere trasmesso alle nuove generazioni[1].  Ne viene fuori l’immagine di una scuola che procede verso una sorta di riduzione a luna-park tecnologicamente scintillante, luminoso e variamente rumoroso, nel quale lo studente-consumatore si aggira (sotto l’occhio vigile ed appetente delle imprese informatiche) per scegliere quel che trova di più conforme  alle sue istanze e ai suoi “bisogni”, senza accorgersi che istanze e bisogni sono spesso indotti da altri. Un paese dei balocchi allestito da adulti premurosi e desiderosi di “accontentare” i giovani e togliere dal loro cammino il sacrificio e l’impegno intellettuale. Adulti che agiscono anch’essi –più o meno consapevolmente- per conto dell’ “implacabile sistema economico”.  L’abbandono dei contenuti nei quali si sostanziano millenni di acquisizioni dell’umanità a vantaggio della idolatria di una rete nella quale tutto si trova bell’e pronto, senza la fatica dell’acquisizione, comporta anche il tramonto della figura del maestro, il trasferimento del suo prestigio alla macchina, la sua trasformazione in «operatore,  coordinatore e prestatore di servizio», praticamente al servizio delle macchine didattiche.

Proprio alla figura del maestro, come emblema di una scuola che non abbandoni quel cammino millenario e si configuri come fatta dagli uomini per gli uomini, Ferroni dedica pagine molto intense, vedendola come un antidoto all’appiattimento della scuola sulla cultura e sui comportamenti oggi dominanti, che vorrebbero configurarsi come un «orizzonte antropologico» ineluttabile e definitivo. Una figura essenziale anche per l’educazione alla democrazia, la quale non si può esercitare senza una lingua che consenta di argomentare e confrontarsi. Una lingua ed un confronto garantiti proprio dalla presenza del maestro, senza la quale –in balia dei linguaggi correnti e prosperanti nella rete- i giovani si ridurrebbero ad un balbettio frammentato di scaglie di dialetto decontestualizzate, formulette tratte dalla lingua inglese (che si continua ad ignorare nel suo vero valore), abbreviazioni ed impoverimenti lessicali che non consentono argomentazione, narrazione, dialogo. Un balbettio di cui si hanno già molti sentori. E a fronte del quale Ferroni riafferma che «il destino della scuola è legato alla passione degli insegnanti, alla loro convinzione nel valore della cultura e delle materie che insegnano».

Molto altro c’è in questo libro, che riesce a condensare una ricchezza di argomenti che inquadrano lo stato attuale della scuola e le sue prospettive attraverso una miriade di aspetti, pratici o di principio, trattati con la necessaria sinteticità ma senza alcuna superficialità. E così scorrono sotto i nostri occhi, ed impegnano la nostra riflessione, gli argomenti più svariati (molti anche come analisi dei contenuti della “Buona scuola”):  le attività extrascolastiche, le autogestioni,  il precariato, il sostegno, il merito, la valutazione, i contenuti della varie materie, l’alternanza scuola-lavoro, i laboratori, i finanziamenti. Ed anche quello di un “pensiero lento” necessario tanto per «l’approfondimento del pensiero, per il riconoscimento del senso del mondo», quanto per intervenire criticamente sulla irrazionalità dei meccanismi  economici che stanno consumando le risorse del pianeta e minacciano la stessa sopravvivenza dell’umanità[2].  

Una miriade di argomenti, si è detto, ma tutti tra loro connessi a formare il quadro di una critica alle “derive” cui il mondo sembra andar soggetto e a proporre un’idea di scuola in cui gli adulti non giochino il ruolo di organizzatori del luna-park, ma esercitino il «dovere di mettere in guardia le giovani generazioni, predisporle a una essenziale coscienza critica, educarle alla responsabilità, alla valutazione delle conseguenze dei propri atti, alla cura del mondo e alla gestione di un possibile equilibrio civile». Il che si può conseguire per varie strade. Come quella di fare della scuola un centro educativo per l’intero territorio e quella di improntare la concreta esperienza scolastica quotidiana alla pratica della responsabilità.  Mantenendo sempre forte il legame dell’attività educativa con i contenuti delle materie, senza le quali il luna park è sempre in agguato. Strade che richiedono tempo e fatica tanto per chi insegna che per chi apprende. Ma che possono realizzare un’idea di scuola all’altezza dei tempi. Una scuola delineata da Ferroni con la proposizione di un saldo quadro teorico, ma anche con analisi in dettaglio del ruolo che possono essere  giocate dalla lingua, dalla geografia, dalla storia, dall’arte, dalla musica, dalle scienze. E, naturalmente, dal concreto agire dell’insegnante. Sì che questo libro si rivela davvero utile per chi voglia riflettere, insieme, sul quadro nel quale ci muoviamo e sulla concreta vita quotidiana che nella scuola si svolge.

                                                                                            Nando Cianci



[1] Per un approfondimento di questo argomento mi permetto di rimandare al mio Viandanti e naviganti. Educare alla lentezza al tempo di Internet, Youcanprint, 2015; in particolare pp. 72-107.

[2] Anche su questo tema il lettore mi perdonerà il rimando al mio Viandanti e naviganti…, cit; pp. 7-24.

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