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vita degli elfi

di Muriel Barbery
edizioni e/o, Roma, pp. 256, €  18,00

 E’ una storia animata da molteplici prodigi. Il primo sta nella trama stessa, che vede il Bene e il Male combattersi in una dimensione per molti aspetti fatata, dove uomini ed elfi si muovono secondo le rispettive caratteristiche, ma anche trasfondendosi a vicenda i patrimoni vitali, le elaborazioni culturali, la capacità di sentire la vita anche nelle rocce, negli alberi, nelle acque, nelle terre e nei cieli. Perché un tempo essi partecipavano all’unità del tutto, insieme alla natura, che non  conosceva ancora la separazione tra cielo e terra e che a tutti forniva una linfa vitale che plasmava l’andare del mondo. Poi venne la frantumazione, le singole entità si staccarono dal tutto, con il conseguente carico di disarmonia e di dolore.

   Ma la primigenia unità non può essere cancellata. E Muriel Barbery ce ne fa rivivere gli echi in questa storia dove uomini ed elfi cercano, ostacolati da potenti forze malefiche, di ritrovare il Ponte che unisce i loro mondi.

   Una storia ricca di personaggi e comunità, perché il romanzo, all’interno della vicenda cui tutti partecipano, si dipana anche in tante storie con al centro protagonisti diversi, che si intrecciano tutte a formare un protagonista collettivo ed un ordito che ci consegna una dimensione magica dell’esistenza, dove trovano posto tanto il dolore e la tristezza, quanto il sorriso e la gaiezza.

   In tutte, più o meno direttamente, fanno sentire la loro presenza due bambine che portano con sé “poteri” magici ai quali il Bene sembra affidare le possibilità di rivedere il Ponte e stringere la necessaria alleanza tra elfi, umani e natura. Poteri che si manifestano in vario modo e recano un legame profondo con l’arte –particolarmente con la pittura e la musica– che apre alla visione magica del passato, del presente e del futuro. Poteri che consentono visioni e dialoghi tra le bambine per quanto esse si trovino a grande distanza l’una dall’altra. Ambedue sono figlie di prodigi inspiegabili ed ambedue sono  venute al mondo con aspetto totalmente umano. L’una, Maria, è figlia di due elfi e vive la sua infanzia tra gli umani nelle campagne della Borgogna. L’altra, Clara, è figlia di un’umana e di un elfo e cresce a Santo Stefano di Sessanio, un paesino abruzzese arroccato tra i monti. Per poi trasferirsi a Roma, dove affinerà i propri “poteri” tramite la musica ed entrerà in contatto con personaggi emanati da mondo degli elfi o con esso in sintonia. Entrambe hanno un rapporto intenso con la natura e con la comunità. Una natura che non costituisce lo sfondo paesaggistico della storia, ma che plasma le persone. E che parla agli umani attraverso le sue creature e i suoi segnali, in un linguaggio che alcuni esseri umani comprendono ma che non è poi traducibile in parole. Perché essi, come dice l’autrice a proposito di una contadina borgognona, non hanno le parole, ma hanno il talento e sono, perciò, in grado di ricevere «in pieno cuore la magnificenza dell’arte». Il che coincide, in fondo, con una delle caratteristiche dello stile narrativo di Barbery: nel libro molte cose non vengono raccontate con le parole, ma fatte “sentire” attraverso ambientazioni, atmosfere, situazioni rappresentate.

    Per un lungo tratto del romanzo Maria vive in una comunità orientata al Bene e dal Bene protetta e posta in uno stato di prospera frugalità. Invece Clara, che partecipa tanto della condizione umana che di quella egli elfi, già mentre cresceva nella piccola comunità sui monti abruzzesi aveva un cuore nel quale neve e tempesta convivevano e che era «aperto sia alla felicità che ai sortilegi della disgrazia». Ma, trasferendosi a Roma, man mano che si inoltra nella città, sente che il cuore le sanguina e poi incontra sempre più spesso i fantasmi del Male. Continuando, tuttavia, ad essere circondata da persone (o elfi in sembianze umane) che incoraggiano e favoriscono lo sviluppo dei suoi “poteri” e del suo talento “magico”. In un iniziale quadro idilliaco, insomma, si insinuano pian piano ombre che vanno sempre più infittendosi.

    Lo scontro, epico ma non definitivo, tra il Bene e il Male si svolge, però, nelle terre e nei cieli della Borgogna e ha per teatro la natura, che ne è anche protagonista insieme ad umani e ad altre creature dalle strane sembianze, incrocio tra animali, umani ed elfi. Una lotta alla quale Clara partecipa, pur restando a Roma, in una sorta di connessione magica, favorita dalla musica, che la fa essere virtualmente presente sulla scena del combattimento.

     Uno scontro, come già detto, non finale, che lascia presagire altri possibili sviluppi, ma che mostra come il Bene possa trionfare anche contro l’immane forza  messa in campo dal Male. A condizione di tenere a mente la lezione del capo elfo del Consiglio delle Brume: «Il mondo non ha mai smesso di frammentarsi e di perdersi. Nelle epoche antiche umani ed elfi non erano forse fratelli di specie? I più grandi mali sono sempre venuti dalla scissione e dai muri […] Ma noi speriamo in tempi di alleanza e inseguiamo l’illusione dei poeti antichi. […] e non è detto che (…) i sogni non trionfino sui cannoni». E’ l’ennesima metafora della condizione umana dei nostri tempi (come quella del ruolo che può svolgere l’arte in un mondo in parte ottenebrato) che l’autrice ci porge collocandola dopo una battaglia surreale descritta con la minuziosa precisione di una reale, iniziando dalla dettagliata illustrazione dei singoli componenti le truppe  e proseguendo in una rappresentazione del Bene e del Male che prende le sembianze di una natura pregna di sciagure cui l’uomo fa fronte con il suo animo e con il suo legame con la parte vitale della natura stessa. Ricostituendo, insomma, la sua unità con il tutto.

     Questa vittoriosa battaglia conclusiva della storia narrata, ma non della vicenda umana, al pari di molte altre parti del libro non consente una lettura “distaccata”. O il lettore si immerge dentro il clima magico, nel quale maturano insieme gioia e dolore, o resta ai margini della comprensione di eventi che si svolgono tra cielo e terra –con l’uno che si rovescia sull’altra, e viceversa, fino ad invertirsi- e trovano riscontro nel profondo dell’animo umano. Un profondo che a tratti sfiora l’abisso, ma che alla fine pervade di luce nuova il mondo e gli uomini, uniti nel tutto della vita.

     Eppure, per quanto intriso della tragicità di una lotta senza quartiere, il libro –come già detto- ci avvolge nella sua dolcezza. Merito anche di una lingua fluida e ricercata insieme, che non conosce la banalità e tende a librarsi verso il poetico, sposandosi alla perfezione con il ritmo della narrazione. Un ritmo che spesso sembra realizzare l’ossimoro di una lentezza che galoppa, giacché tutto si muove in una fusione di tempo dell’anima e tempo del mondo che fa sì che le vicende accadono con un movimento veloce, ma vengono vissute dal lettore al rallentatore. Con momenti di elevato godimento, specie nella delineazione dei personaggi: la descrizione della lentezza solenne e popolare della contadina Lorette Marcelot, ad esempio, vale da sola il piacere della lettura. Così come la vale la coralità di una comunità consapevole che l’amore si «annida nei giorni di nulla, nei lavori ingrati, nelle ore inutili, non scivola su zattere d’oro e fiumi scintillanti, non canta, non brilla e non proclama mai niente». Sembra quasi una scialuppa di salvataggio offerta al mondo delle apparenze, del vuoto scintillare delle esibizioni mediatiche, degli idoli del successo e del lusso, della frenesia arrivistica che  oggi tenta in ogni modo di avvolgerci.

                                                                                            Nando Cianci

 

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