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DI COSA STIAMO PARLANDO

 

Le frasi e i tic della lingua quotidiana, a cura di Filippo La Porta. Enrico Damiani Editore, Salò, pp. 104, € 12,00.

 Il libro: Siamo sommersi da frasi fatte e tic linguistici. Dagli anglicismi, sempre più numerosi (e cha appaino bizzarri in una Italia nella quale il 62 per cento della popolazione non parla neanche una lingua straniera), alle espressioni coniate in rapporto al cambiamento degli stili di vita (come l’inflazionato accaventiquattro). 
   A questo dilagare rispondiamo, a seconda dei gusti e dei temperamenti personali, con fastidio, irritazione, sguardo compiacente dall’alto. Ma anche riflettendo su di essi come indicatori dello stato della lingua nell’uso corrente. Come fanno, ad esempio, dieci intellettuali che hanno concorso, con il coordinamento di Filippo La Porta, alla scrittura di questo libro godibile, divertente, a volte spiazzante, comunque fonte di riflessioni che spesso trascendono la linguistica.

 

   Il libro ricorda ai lettori, e agli ipercritici delle “impurità” cha vanno trasformando la nostra lingua, che «la lingua è un organismo mobile, impuro, ibrido proprio in quanto vitale, e dunque condannare gli stereotipi della lingua -che cambiano ad ogni stagione- può diventare espressione di snobismo». Lungi da questo intento, il libro analizza invece tic linguistici e frasi fatte come «spie preziose della trasformazione del costume e della mentalità. […] Sono tracce, indizi e documenti veridici dell’inconscio della comunità. Quasi autobiografia della nazione». 
   Il volume si articola in una serie di “microsaggi antropologici”, secondo la definizione datane da La Porta, la cui analisi introduttiva ci rivela che i tic espressivi esprimono anche il carattere dell’epoca: «esibizione anche sfrontata di indifferenza, sdrammatizzazione inesausta della realtà, autoindulgenza narcisistica, ansia di rassicurazione (e di autorassicurazione), suggestione del linguaggio scientifico tecnologico, snobismo di massa, eccitazione della cultura spettacolo». Caratteri ai quali si possono collegare espressioni come non c’è problema, come dire?, non me ne può fregare di meno, ci può stare, piuttosto che (usato impropriamente invece della disgiuntiva “o”), quant’altro, tipo che… e così via. Tic che si diffondono in generazioni giovani e adulte, che scavalcano classi sociali e livelli di istruzione. Che si annidano anche nei discorsi di personaggi che hanno responsabilità di scelte che riguardano tutta la comunità: «”In qualche modo vareremo la nuova finanziaria”, proclama il Presidente del Consiglio intervistato a Porta a Porta», ci ricorda il curatore, che soggiunge essere, la cosa, in fondo normale nel «Paese del pressapochismo», finendo anche per svelare qualche aspetto del carattere nazionale: «Nel Paese in cui notoriamente il provvisorio diventa subito definitivo e l’emergenza è per sua natura perenne, l’in qualche modo è in realtà da sempre un vero e proprio modus vivendi più che un tic linguistico usato e abusato nel parlare quotidiano».
   Altre volte, come chiarisce Valeria della Valle, i tic linguistici hanno la funzione di «sostenerci nel discorso, mentre prendiamo tempo, zoppicando incerti tra una frase e l’altra; molti, invece, le adottano per imitazione, per darsi un tono, per apparire quello che non sono». 
   Ci sono poi espressioni ancora più rivelatrici, come quel accaventiquattro che vorrebbe magnificare l’impegno, la disponibilità, anche lo spirito di sacrificio. Ma che più spesso tradiscono la frenesia e l’esibizionismo di vuol stare sempre sulla scena. O la schiavitù alla quale certe professioni condannano chi le pratica. E testimoniano anche la presenza di una delle caratteristiche più invasive del nostro tempo: la sensazione di vivere in un continuo indistinto presente, senza che situazioni e sentimenti possano essere scanditi dalla loro separazione temporale con altri fatti e vicende. Insomma il mito del “tutto pieno” che porta al multitasking accaventiquattro. Cioè all’alienazione da se stessi.
   Il libro è ricco di tali disvelamenti, che non è qui possibile riassumere. Ne ricorderemo solo un altro paio, a cominciare dal Siete bellissimi che trionfa quotidianamente sui social e dietro il quale si cela un popolo di esteti non in grado di produrre bellezza. Ma che in compenso incrementa lo sviluppo della vendita di cosmetici, dell’abbigliamento, delle palestre, della chirurgia estetica. Così come l’introduzione del si prega gentilmente che si può leggere in tanti uffici pubblici e privati non ha «arrestato il dilagare dei bifolchi», essendo solo un trucco accattivante e retorico già spiegato dal Fantozzi di Paolo Villaggio.
   Ma, come abbiamo accennato, in questo libro non si sbeffeggiano i tic, né chi li pratica. Prevale, invece, l’atteggiamento di studio e di ricerca, reso in forma brillante e a tutti accessibile.
E, naturalmente, c’è ampio spazio anche per chi dà dei tic linguistici e delle frasi fatte una lettura, per così dire, positiva. Come Nadia Terranova, che li rimette nell’alveo della fantasia tracciato da Gianni Rodari. Sicché con ciaone e insalatona, per esempio, si possono costruire filastrocche e storielle divertenti. Un rovesciamento utile a toglierci l’insofferenza o l’irritazione che, di primo acchito, i tic altrui (che magari qualche volta usiamo anche noi senza accorgercene) possono provocarci. E a farli sconfinare nella narrazione e persino nella poesia.
   O chi ci ricorda, come Edoardo Zuccato, che la «goffa incomprensibilità» di certi anglicismi e alcune sfaccettature negative del loro uso non possono giustificare atteggiamenti di intolleranza linguistica, poiché le lingue, da sempre, si evolvono mischiandosi. Con il conseguente invito a rassegnarsi rivolto ai “puristi”: «È l’uso a decidere, come il dibattito teorico novecentesco sulla lingua ha ampiamente riconosciuto, anche se già lo sapeva Orazio, un poeta poco intellettuale ma osservatore della società e della lingua».
Ecco: magari, quando i tic linguistici ci spingono all’irritazione, possiamo andare a rileggerci una bella ode di Orazio, o una poesia di Leopardi, se si preferisce l’italiano, che possono, in qualche modo, riconciliarci con il parlare umano di ogni tempo e ogni luogo.

L’incipit: Proviamo subito con un test. Quando in una conversazione con voi qualcuno usa parole ed espressioni come quant’altro, briffare, yess, sicuramente, anche no, esatto!, allora ditelo, sdoganare, tuttaposto?, hai capito come?, gentilmente può darmi un’informazione? Della serie…, etc., che reazione avete? Di fastidio e violenta allergia? Di sorridente pietas per tutto ciò che è umano, troppo umano? di sostanziale indifferenza? Le pagine che seguono, oltre a ripercorrere e aggiornare il mutevole repertorio delle nostre frasi fatte, invitano ad alcune considerazioni in proposito: abbiano infatti chiamato dieci autori (scrittori, linguisti, giornalisti, poeti) per commentare ciascuno un tic della comunicazione quotidiana o anche solo per dirci la loro sullo stato delle cose nella nostra lingua d’uso, tra neologismi, anglicismi e tormentoni vari.
[…] Quando Giuseppe Culicchia si sofferma su “in qualche modo2, Antonio Pascale sul persistente uso di “ricchione” nel Sud, Pietro Dorfles su “accaventiquattro”, Teresa Ciabatti su “Alla grandissima”, Giuseppe Scaraffia su “Siete bellissimi”, a loro non interessa tanto esibire sdegno o condannare alcunché, quanto risalire induttivamente dal particolare a uno sguardo d’insieme sulla società, offrendoci degli appuntiti microsaggi antropologici.

 

Il curatore: Filippo La Porta Critico letterario e saggista, collabora con IlSole24ore, Il Messaggero e ha una rubrica su Left. È autore di molti libri, tra cui Indaffarati (Bompiani, 2016), Una “scienza” con il cuore (Castelvecchi, 2017), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (2018).

 

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