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LAVORETTICosì la sharing economy ci rende tutti più poveri, di Riccardo Staglianò, Einaudi, Torino, 2018, pp. 234, 18,00.

Il libro: Un nuovo paradiso sta sorgendo. Abbandonata l’epoca in cui ha mostrato un volto spietato ed egoista, il capitalismo ha scelto la strada della virtù, dell’altruismo e della generosità. Questo sembra promettere il nome davvero seducente che accompagna nuove forme di lavoro che si sono affermate negli ultimi tempi: sharing economy, economia condivisa. Una espressione che i cantori di questa nuova rivoluzione si affannano a presentare come la realtà di un sistema economicamente efficiente, rispettoso dell’ambiente, socialmente giusto. Ma sono solo parole che rivestono una realtà ben diversa, analizzata spietatamente da Staglianò, con un continuo contrappunto all’aurea retorica sfavillante della economia della condivisione, di cui mostra i lati per nulla meno feroci delle epoche precedenti.
Cosa si condivide, in realtà, in questa economia?

Non il profitto, che è appannaggio di chi possiede le piattaforme. Mentre negli Usa certi salari medi sono inferiori a quelli del 1969 e gli italiani guadagnano meno di vent’anni fa.
Non la ricchezza prodotta, che viene distribuita con una iniquità forse mai conosciuta prima.
Non il tempo, che dovrebbe essere liberato da un lavoro condiviso in tanti, perché la precarietà dell’occupazione e le “regole” del sistema creano una “indigenza di tempo libero”.
Non la sicurezza individuale e sociale che la parola stessa, “condivisione”, dovrebbe evocare, perché «la maggior parte delle piattaforme non paga ai suoi autisti né la malattia né tanto meno la maternità» (si sta qui parlando delle piattaforme, tipo Uber, che gestiscono le nuove forme di mobilità).
I signori della nuova economia sono dunque, i possessori delle piattaforme digitali, che utilizzano le prestazioni di moltitudini di lavoratori senza assumerli come dipendenti e che hanno inventato anche il modo di pagare tasse da mendicanti: «campioni olimpici di elusione» ci forniscono esempi brillanti come quello del «perverso rimpallo tra le sussidiarie olandesi di Uber, dove la prima trasferisce i redditi alla seconda come royalty (perché le royalty non sono tassate) e resta con una miseria in mano da dichiarare all’esattore». E così, con i contributi che non vengono versati per lavoratori non riconosciuti come dipendenti (e che, perciò, devono “arrangiarsi”) e le tasse ridotte all’osso, lo stato sociale è destinato a frantumarsi. Insicurezza per l’oggi e per il domani.
Insomma l’economia della condivisione, la sharing economy, va rinominata con una più calzante gig economy, vale a dire economia dei lavoretti. Quella che consente di arrotondare, più che garantire la tranquillità economica. E, per di più a caro prezzo, costringendo chi vi incappa a prestazioni senza tutele né garanzie, con retribuzioni non contrattabili, che possono anche volgere drammaticamente al ribasso, se le esigenze della concorrenza tra piattaforme lo "impongono". E con un paradosso beffardo: guadagnare a livelli di arrotondamento costringe in realtà a dedicare a questo lavoro tutto il proprio tempo.
A complicare il quadro, ma anche a fornire l’ambiente adatto al proliferare della gig economy c’è un cammino di cui Staglianò individua le tappe: la globalizzazione (con lo spostamento della produzione verso aree in cui il lavoro costa meno e le tutele del lavoratore sono scarse o nulle), la finanziarizzazione dell’economia (che ha trasformato il lavoratore da risorsa a costo fisso, ovviamente da limare il più possibile) e l’intelligenza artificiale (mercé la quale l’automazione tende a sostituire il lavoro degli uomini): la gig economyI sarebbe, dunque, l’ulteriore tappa di un processo da tempo in atto.
Ma siamo condannati a subire passivamente questo percorso e le nuove tappe che esso ci riserverà? Alla denuncia impietosa dell’attuale stato di cose, l’autore non fa susseguire un cupo pessimismo. Trascorre, invece, il cospicuo ultimo capitolo del libro ad interrogarsi sulle possibili vie d’uscita, che spaziano attraverso esempi di vita vissuta, di realtà in controtendenza, di proposte fiscali, di forme aggiornate di welfare, di possibili alternative al modo dominante del fare impresa. Il tutto partendo da un presupposto chiaro: non è vero che non si possa far nulla e che l’economia e la tecnologia seguano inesorabilmente il loro corso, insensibili ad ogni intervento umano.

Molte informazioni e molti spunti di riflessione, dunque, in questo libro caratterizzato dalla freschezza dell’indagine condotta sul campo congiunta ad una ricchezza di documentazione dei fenomeni che ne mostrano la vastità e la diffusione al di là delle vicende particolari raccontate. Il tutto espresso, anche qui insieme, con la scrittura scorrevole del giornalista e con quella di chi penetra all’interno di meccanismi di solito riservati agli “specialisti”. Con uno scotto da pagare, riguardo a quest’ultimo aspetto: una sovrabbondanza di anglicismi dettata, più che dalla scelta dell’autore, dal fatto che il linguaggio dell’economia ne è ormai universalmente infarcito. E che anzi l’autore in più occasioni si sforza di tradurre in concetti comprensibili anche a chi non conosce l’inglese.    

Un libro che, in definitiva, ci aiuta a svelare una gigantesca mistificazione, a resistere al tentativo di trasformarci in “credenti” devoti ad una economia presentataci come la migliore possibile e come ancella della felicità universale. A misurarci con problemi complessi e a non smarrire la fiducia nelle possibilità umane di attraversarle senza soccombere.  (n.c.)

L’incipit: Questo non è, chiariamolo subito, un libro contro la tecnologia. Sono innamorato della tecnologia. Da sempre. È un libro contro la retorica, contro lo spettacolino son et lumière che le hanno allestito intorno i banalizzatori della «distruzione creatrice», contro i pubblicitari che hanno tirato a lucido gli slogan e i giornalisti che si sono precipitati a testimoniare nella causa di beatitudine, contro i lobbisti che ne hanno venduto una rispettabilità istituzionale e i politici che l’hanno comprata senza fare una piega. In buona sostanza è la lunga denuncia di una pericolosa impostura linguistica, quello che sta provando a farci credere che «sharing economy» si traduca davvero con «economia della condivisione», con tutto il bene che ne deriverebbe. Un nuovo capitalismo, quello delle piattaforme, tanto generoso e altruista quanto il vecchio, che abbiamo conosciuto fino a oggi, era spietato ed egoista. La sharing economy invece, sotto i brillantini della narrazione prevalente, presenta solo vantaggi. Economicamente efficiente. Ambientalmente rispettosa. Socialmente giusta. Chi la critica dunque non può che essere una brutta persona. Peccato che, a dispetto dei termini, più che condividere, la gig economy – cominciamo a chiamare le cose per quel che sono: economia dei lavoretti – concentri il grosso dei guadagni nelle mani di pochi, lasciado alle moltitudini di chi le svolge giusto le briciole. Share the scraps economy l’ha ribattezzata Robert Reich. Chi possiede la piattaforma estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione. Così il vassallo Travis Kalanick in un lustro passa da zero a sette miliardi di ricchezza personale mentre sempre più autisti di Uber, dopo l’ennesima decurtazione alle tariffe, dormono nei parcheggi zona aeroporto di san Francisco per essere i primi ad aggiudicarsi le corse buone. Come in ogni casinò che si rispetti, il banco vince sempre.

 

L’autore:Riccardo Staglianò è nato a Viareggio nel 1968 ed è inviato de la Repubblica. Ha iniziato la sua carriera come corrispondente da New York per il mensile Reset, ha poi lavorato al Corriere della Sera e oggi scrive inchieste e reportage per il Venerdì. Per dieci anni ha insegnato Nuovi media alla Terza Università di Roma. Presso Einaudi ha pubblicato Al posto tuo. Così Web e robot ci stanno rubando il lavoro.

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