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(Nando Cianci)
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Come la tecnologia influenza le menti dei nostri ragazzi e il nostro rapporto con loro, di Domenico Barrilà, Feltrinelli, Milano, pp. 140, € 13,00.
La responsabilità sociale della psicologia è grande e lo sa bene Domenico Barrilà, psicoterapeuta, analista da decenni impegnato nell'attività clinica e autore di numerosi libri di successo. Sempre attento agli effetti prodotti sulla psiche dai fenomeni sociali, con I superconnessi (FeltrinellI) affronta il fenomeno della tecnologia e l'influenza che ha avuto e sta avendo sulla formazione delle giovani generazioni. Perché una cosa è certa: i nostri "figli digitali", i ragazzi contemporanei, hanno gli occhi eternamente fissi su smartphone e cellulari, con la conseguenza che la tecnologia rischia di influenzare in modo irreversibile il rapporto tra loro e gli adulti e perfino le loro menti. Per tenere il più possibile lontani i danni dell'ubriacatura in corso, è necessario che i genitori in generale - questo il parere di Barrilà - si riapproprino della titolarità per educare i giovani, una responsabilità rimasta a lungo ostaggio dell'eccesso tecnologico. E, dunque, che intensifichino l'impegno per arginare gli effetti dell'indiscutibile overdose nell'offerta di ingredienti formativi virtuali.
Per farlo, è necessario riflettere sulla differenza tra "osservare" e "spiare". È inutile e dannoso controllare i propri figli, anche se con le migliori intenzioni. Un atteggiamento che mina la fiducia e distrugge l'autostima di chi è spiato. Al contrario è bene "osservare" i ragazzi, un approccio fiduciario che permette di comprendere e quindi, se necessario, di intervenire con celerità e maggiore consapevolezza. Un comportamento senza dubbio migliore per diminuire la distanza tra genitori e figli. Infine è indispensabile che adulti ed educatori insegnino ai giovani a coltivare il sale dell'umanità, ovvero a trovare il giusto punto di equilibrio tra i propri interessi e quelli degli altri. Perché, ammonisce Barrilà, "non deve essere la tecnologia a dettare le regole del nostro fattore umano, ma il contrario". I superconnessi aiuta a riflettere e a misurarci con le conseguenze dei grandi cambiamenti contemporanei e ci stimola a interrogarci sugli effetti positivi e negativi delle nuove realtà. Un passaggio prezioso per riconquistare il legame educativo tra generazioni, indispensabile a garantire il futuro.
(da www.repubblica.it, articolo di Silvana Mazzocchi, 6 dicembre 2018).
Il risvolto: Ua lettura originale, acuta e innovativa, su come la tecnologia ha provato a scipparci i nostri figli, riconfigurando i rapporti tra noi e loro. Un contributo fondamentale per conoscere i punti di forze e di debolezza dell’ospite digitale, che ci aiuta a superare la fase delle recriminazioni per riavvicinare le generazioni.
Finita l'ubriacatura, responsabile di una confusione pedagogica senza precedenti, smaltita in parte la paura che sembra avere paralizzato un'intera generazione di educatori, è necessario che genitori e adulti in generale si riapproprino della titolarità del compito educativo. Un compito che, scoraggiati dalla mole della novità e dalla loro stessa autopercezione di inadeguatezza, hanno finito per rifiutare, spalancando le porte al presunto "nemico": la tecnologia.
Lo sguardo di Domenico Barrilà, da sempre attentissimo all'influenza dei fenomeni sociali sulla psiche, si posa sui nostri "figli digitali", persi negli schermi dei loro cellulari e apparentemente vivi solo attraverso di essi. Vi scopre una generazione fragile, che oggi più che mai ha bisogno di educatori solidi, che non confondano l'"informazione" con l'"educazione". Si tratta di una generazione che, nella Rete e nel loro voler essere costantemente "connessi", trasferisce - magari distorcendolo - il bisogno di "legami" che è proprio dell'uomo da sempre. Barrilà guarda in faccia la rivoluzione digitale e gli effetti da essa prodotti nel delicato recinto che ospita educatori, genitori, bambini e ragazzi, portandoci a ragionare senza isterie e a misurarci con i riflessi dei cambiamenti, positivi e negativi, generati da vecchie e nuove realtà. Arrivati alla fine della lettura sperimenteremo la piacevole sensazione di essere tornati in gioco, con le idee più chiare e con qualcosa di solido da dire e da fare, ma soprattutto con la certezza che niente è più forte del legame educativo, a patto che si abbia voglia di tenerlo in vita.
L’incipit: Il muro che separa la linea lenta da quella veloce è alto all’incirca un metro e sessanta centimetri, misurato con una discreta approssimazione, visto che arriva alle mie spalle.
Aspettavo il passante ferroviario che mi avrebbe condotto in centro a Milano, sul marciapiede un certo numero di persone, non tantissime ma neppure poche, c’erano anche due bambini, gli unici a non poter gettare lo sguardo oltre quel muro di separazione. Per questo il loro mondo era assai più circoscritto rispetto a quello di cui potevamo godere noi adulti.
Dall’altra parte transitavano convogli eleganti, coloratissimi, forse troppo veloci per noi adulti, che comunque potevamo seguirli con lo sguardo, ammirati dalla loro forma slanciata, avveniristica, mentre a quei bambini, che certo sarebbero rimasti eccitati dalla velocità, tutto ciò era negato. Dipendevano totalmente dal racconto della madre, che li teneva per mano e si rivolgeva a loro con parole che non udivo ma, a giudicare dai gesti, mi pareva descrivessero proprio la ragione del frastuono che giungeva dall’altra parte di quella barriera, così antipatica dal loro punto di vista.
Per i bambini la situazione doveva somigliare a quella di una persona che si muove in una stanza buia. Può sentire i rumori, gli odori, la temperatura e tuttavia non è in grado di spostarsi consapevolmente. Di quando in quando urta contro qualche ostacolo, un mobile o un arredo qualsiasi, senza che possa riuscire a farsi un’idea chiara dell’ambiente nel quale si sta aggirando.
In quel momento avevo pensato che educare è esattamente il modo in cui noi adulti raccontiamo, a bambini e ragazzi. Ciò che vediamo dall’altra parte del muro.
L’autore: Domenico Barrilà, psicoterapeuta e analista adleriano, è impegnato da decenni nell’attività clinica, accompagnata da una produzione editoriale che comprende una ventina di volumi, diversi dei quali tradotti all’estero. Tra questi, I legami che ci aiutano a vivere (2012 e, 2015) e Quello che non vedo di mio figlio (2016). Coltiva da sempre un forte interesse per la responsabilità sociale della psicologia, che si manifesta in una costante presenza sul territorio - attraverso numerosi seminari e conferenze svolti in Italia e in altri paesi – nonché in un migliaio di articoli, divulgativi e scientifici, apparsi su quotidiani e periodici.