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POPOLO MA NON TROPPOIl malinteso democratico, di Yver Mény, il Mulino, Bologna, pp. 214, € 15,

 Il libro: La ricca, complessa, ma anche problematica costruzione delle istituzioni occidentali, e della cultura politica che le sottende, è frutto di una lunga evoluzione storica, ma anche di punti di svolta e momenti di rottura derivanti da eventi e circostanze non sempre correlati e, a volte, anche casuali, che l’autore ricorda nell’incipit del volume. Questa modalità di lettura della storia viene applicata anche al tempo presente, nel quale viene individuato un ulteriore momento di rottura epocale, determinato da un insieme di fattori che portano ad interrogarci sullo stato di salute della democrazia così come la conosciamo: la crisi del “capitalismo globalizzato” accompagnato dalla rivoluzione tecnologica e da sconvolgimenti nei campi dell’economia, della finanza, della società del suo complesso. Un insieme che ha messo in crisi il ruolo e l’incidenza dello Stato nell’economia e, al contempo, i principi che hanno sin qui regolato il funzionamento dei sistemi democratici, ad iniziare da quelli della rappresentanza, della mediazione, della delega. Non poteva che scaturirne anche la crisi delle formazioni che all’attuazione di quei principi concorrevano, in primis i partiti.

Fra i meriti storicamente acquisiti da questi ultimi, vi è certamente quello di aver contribuito a far riemerge il cittadino dallo stato di sospensione nel quale l’aveva messo la Seconda Guerra Mondiale e a fargli assumere un ruolo centrale e protagonista in una fase di espansione della democrazia. Ma i fattori sopra accennati, e in modo particolare le nuove forme tecnologiche di comunicazione e di informazione, hanno destabilizzato, come già detto, tanto il ruolo dei partiti quanto il rapporto tra cittadini e istituzioni. È subentrato il senso della inessenzialità dei corpi intermedi, della mediazione, della accresciuta potenza dell’individuo, capace, con le nuove tecnologie, di essere presente in modo diretto in un vasto mondo che va ben al di là dalla cerchia che la sua rete di relazioni gli consentiva in passato. Con la possibilità di unirsi alle ondate digitali di critica alle élites, agli establishment, alle “caste”. Una “liberazione” delle critiche e della protesta, ma anche dei risentimenti prima covati in ristretti ambiti relazionali, che non hanno messo capo ad un’idea e ad un progetto nuovi di democrazia, ma tendono a limitarsi alla passione e alle emozioni. Scivolando nell’aggressività e adottando linguaggi opposti a quelli del dibattito politico e civile tradizionali, esprimendosi con modalità offensive e violente presentate come il genuino modo di esprimersi del “popolo”.
A questo sconvolgimento del discorso pubblico, la democrazia non ha saputo ancora dare risposte nuove, mentre il populismo ne ha fatto un terreno di coltura per costruire le proprie fortune. Un populismo che è stato “assimilato” dall’estrema destra, capace di mettere al centro della propria retorica temi «abbandonati dai partiti di governo che, sia per cecità, sia per interesse elettorale e politico, si sono rifiutati di comprendere le domande dei propri elettori» (l’immigrazione costituisce un tema illuminante in questo senso) e hanno «trascurato i mutamenti sotterranei che hanno colpito le società occidentali nel loro insieme». Con un risultato per certi aspetti paradossali: «nonostante i partiti populisti siano stati per molto tempo ovunque minoritari e raramente al potere, essi hanno comunque dominato, in larga parte, il dibattito pubblico e dettato l’agenda politica».
Si impone, con tutta evidenza, dunque, una riflessione su un fenomeno spesso liquidato con insofferenza come manifestazione irrazionale destinata a sgonfiarsi più o meno con la rapidità con cui è nato. Mény ci invita a non farci illusioni al riguardo: il populismo «ha scarse possibilità di rifluire, data l’ascesa delle nuove tecnologie, dei social network, dell’ “uberizzazione” crescente dei rapporti sociali». Occorre Analizzarlo, confrontarsi con esso, elaborare nuove forme di democrazia, anche fidando nel fatto che «le democrazie sono “trasformiste” e capaci di “digerire” elementi inizialmente visti come incompatibili».
Al termine del lungo tragitto documentato, ricco di riferimenti alle vicende attuali e stimolante attraverso il quale ci ha accompagnato con questo libro, l’autore ci consegna dunque un messaggio di impegno e di speranza. Non prima, però, di averci dato due importanti avvertimenti.
Il primo: esiti possibili dell’utopia del «governo del popolo da parte del popolo» sono l’emergere «di nuove élite fuori dalla ristretta cerchia dominate o quello dell’affermazione di un leader che sia la personificazione della volontà popolare, fino a che sarà possibile identificare tale “volontà generale”». Con tutti le possibili conseguenze su cui la storia ci ha già sufficientemente edotti.
Il secondo: l’intera questione va affrontata alla luce dei problemi posti dalla “tecnocrazia globale” e della globalizzazione in generale: «La democrazia 3.0 è sì tutta da creare, inventare, immaginare, ma è certo che dovrà conciliare la dimensione nazionale con quella globale, l’individualismo e la società».
Un implicito e salutare invito ad intellettuali, politici e cittadini a non trastullarsi nel gioco mediatico dei cinguettii e dei post istantanei, ma a prendere coscienza che salvare la democrazia ed inventarne una nuova non è una giaculatoria da riproporre nelle circostanze ufficiali, bensì una costruzione quotidiana che richiede studio, impegno, mente libera dai pregiudizi.

 

Il risvolto: Disincanto democratico, disaffezione dei cittadini verso i governi, ritenuti colpevoli, assieme a partiti, élites e mercati di averli espropriati del loro potere. Ma il potere del popolo sovrano esiste davvero? In realtà, la democrazia effettiva che noi conosciamo – esito di un percorso storico che dal potere assoluto del re, con aggiustamenti continui, è giunto sino a noi - è un sistema di deleghe a cascata, complesso e faticoso. Se il popolo unico e univoco è un soggetto fittizio, il popolo concreto si rivela eterogeneo, contraddittorio e ingombrante per ogni regime e i movimenti che pretendono di incarnarlo, una volta al governo, non potranno che contenerne le spinte all’interno di un qualche sistema rappresentativo.

 

L’incipit: Nel corso della storia è spesso avvenuto che eventi fluidi, sparsi, frammentati, di difficile lettura si siano congiunti all’improvviso, offrendo più agli storici che agli osservatori diretti la possibilità di scorgere un punto di svolta, una cesura, una rottura: nel 1648 il Trattato di Westfalia; nel 1776 e nel 1789 le rivoluzioni americana e francese; nel 1848 l3 rivoluzioni sociali in Europa; nel 1917-19 le rivoluzioni bolsceviche; negli anni Trenta del XX secolo il crollo delle democrazie a favore dei totalitarismi; nel 1945 il trionfo bipolare degli Stai Uniti e dell’Unione Sovietica; nel 1989 la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’«impero» sovietico, percepita come la «fine della storia». […]
Oggi siamo spettatori ancora incoscienti e incerti di una rottura epocale: quella della crisi innescata dal capitalismo globalizzato all’interno di sistemi democratici che ne hanno permesso la nascita, favorito lo sviluppo, e che, come apprendisti stregoni, si sono fatti rubare il fuoco.
La prima globalizzazione, quella degli anni 1880-1914, ha scosso la prima democrazia del mondo, ma in nome di valori democratici più ambiziosi e utopici. Il People’s Party, il primo movimento populista della storia, si pose l’obiettivo di riformare una democrazia dipinta come ingiusta, ineguale e corrotta. Ma in Europa il movimento populista non ebbe molto seguito. Solo nel 1917 il popolo salì alla ribalta della scena politica, in un modo completamente diverso, portando alla caduta degli imperi autoritari, nel contesto della guerra e della sconfitta.
La globalizzazione che stiamo vivendo non è meno gravata da rivoluzioni -tecnologiche, economiche, finanziarie e sociali – così potenti da influenzare gli stessi sistemi politici. Da un quarto di secolo, le democrazie si sono svuotate proprio quando le si è ritenute insostituibili, senza modelli concorrenti. Paradossalmente, l’assenza di un’alternativa credibile ha costituito il loro tallone d’Achille. Dal momento che non sembravano minacciate, i loro difetti e le loro debolezze congenite sono appari in piena luce, tanto più che, sulla loro scia, trionfava senza dubbio anche il loro compagno di viaggio, l’alter ego, il secondo elemento della coppia considerata indissolubile: il mercato. La politica e la democrazia si sono sottomesse a un partenr molto più potente che si era liberato dalla sua prigione nazionale. 

L’autore: Yves Mény ha insegnato Scienze Politiche a SciencesPo di Parigi e in diverse università francesi, europee e americane. Ha creato e diretto il Robert Schuman Center presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, di cui è stato Presidente. È stato Presidente del cda della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Attualmente insegna nell’Università Luiss-Guido Carli di Roma. Per il Mulino ha pubblicato: Le politiche pubbliche (con J.-C. Thoenig, 20033) e Populismo e democrazia (con Y. Surel, 20042).

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