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La scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più
(Nando Cianci)

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Scuolaslow è una piazza nella quale incontrarsi, discutere, raccontare le riflessioni, le esperienze, le pratiche intrecciate con l'idea di una scuola slow, vale a dire sottratta...

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COLORE DEL CIBOIl colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell'alimentazione, di Vito Teti, Meltemi, Milano, 2019, pp. 284, € 24,00.

 

Il tema: Prospettata come genuina, salutare, scudo contro l’obesità indotta dalle abitudini alimentari disordinate e sbilanciate, che spesso vengono raggruppate sotto l’etichetta di junk food, cibo spazzatura, la dieta mediterranea conosce da alcuni decenni un successo crescente. Da star dell’universo gastronomico. Molto di tale popolarità si deve, però, all’azione del marketing, che ha trovato valide ragioni per proporla ben al di là dei luoghi che le danno il nome. La triade -olio-vite-grano, la varietà di prodotti ortofrutticoli e il pesce sono oggi, in effetti, apprezzati in tante parti del mondo. Bizzarramente, però, l’espandersi della fama della dieta mediterranea ha coinciso con l’aumento, proprio nelle regioni che si vorrebbero come sua origine, dei cibi che essa contemplava solo marginalmente o per nulla: carne, grassi, zuccheri, ad esempio.

Ma neanche prima che questa contraddizione esplodesse, nelle regioni bagnate dal Mediterraneo si praticava, per la verità, quella dieta. I prodotti che la caratterizzano erano, per la maggior parte, inaccessibili ai ceti popolari e componevano la dieta dei loro sogni e desideri, non quella quotidiana. Quando, poi, il boom economico li rese alla portata di tutti, subentrarono le abitudini diverse di cui si è detto, con mutamenti che riguardarono, ovviamente, anche stili di vita e modi di essere. Con il passaggio, anche, dalla fame all’abbondanza, dalla privazione all’eccesso. E con mutamenti che investono la salute, la sfera concettuale e quella sociale insieme, come quello relativo all’idea di grassezza, un tempo simbolo di ricchezza e potenza, poi mestamente scivolato sul terreno della patologia. Intesa nella formulazione adottata (dagli anni cinquanta del secolo scorso) nella comunicazione gastronomica e assunta dal senso comune, la dieta mediterranea, dunque, in sostanza, non esiste e non è mai esistita. Anche perché non esiste un solo Mediterraneo. Il che ci mostra come il discorso sul cibo presenti aspetti, sfaccettature, legami con la storia e la cultura dei popoli che non ammettono stereotipi.

In questa complessità e nelle sue contraddizioni ci accompagna -svelandone la ricchezza che affonda le radici nella storia, nella cultura, nella vita e nella diversità dei popoli- con il consueto stile rigoroso ed insieme affabulante, Vito Teti nel libro Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea. Teti si addentra in quel mondo realizzando un equilibrio davvero difficile: protagonista nel corso della sua vita dei cambiamenti di cui scrive, riesce a mantenere lo sguardo limpido dell’analista. Stare all’interno del mondo di cui parla, assumere anche la propria esperienza come fonte della ricerca, lo aiuta a coglierne la sacralità; gli studi sui quali si basa e i saldissimi strumenti di indagine teorica che si è costruito nel tempo gli consentono di presentarci un orizzonte assai ampio, nello spazio e nel tempo.
Così, Teti destruttura l’ideologia della dieta mediterranea attingendo ai suoi ricordi e ai documenti. Ci spiega come l’idea mitizzata della dieta mediterranea corrisponde, più che a quella praticata, ai desideri che gli abitanti di quelle terre covavano in tempi di alimentazione frugale e persino scarsa. E ci mostra con sapienza come, in realtà, una tale dieta rappresenta una costruzione ed un’astrazione, perché il Mediterraneo è un campo vastissimo di differenti culture, territori, storie. Dal che non poteva non scaturire una varietà di regimi e di abitudini alimentari. Una scoperta che non ci pone nel vicolo cieco di una negazione, perché Teti destruttura senza indulgere alla benché minima baldanza iconoclastica di chi ha scoperto un “trucco” e gode del rivelarlo e nel demistificarlo. Al contrario, si guarda anche dall’opposta ideologia della demolizione, con l’occhio di chi ricerca, dialoga, pratica la dialettica, scopre le ricchezze della molteplicità, cerca sostrati comuni. Cerca e mostra anche alcune spinte positive che si annidano in fenomeni moderni dell’alimentazione che sono in contrasto con quella dieta. E persino nell’animo di chi aderisce acriticamente all’idea stereotipata che interessi vari hanno propagato.
Certo, se ci accostiamo alla lettura di questo libro con la bardatura dei luoghi comuni, per lo più costruiti dai profeti del marketing, e delle varie retoriche che ondeggiano sul Mediterraneo, la prima sensazione che proveremo sarà quella di una mancanza. La sensazione che la critica con la quale si affonda un’immagine stereotipata ci abbia rubato il Mediterraneo. Ci sentiremo più poveri. Ma, scrollandoci di dosso gli orpelli, sentiremo questa mancanza come liberatoria: in realtà quella che ci viene sottratta è l’idea di un Mediterraneo imbalsamato e vuoto, che non esiste e non è mai esistito. E ci viene restituita la varietà di una civiltà immensamente più ricca, anche perché all’unico riflettore che puntava su aspetti pur importanti dei miti e della storia, i secoli di Omero e di Ulisse, se ne affiancano altri che si accendono su una storia straordinariamente vasta e complessa. Alla cartolina illustrata che raffigura mare, sole e vegetazione lussureggiante, che ispira astratta felicità, si sovrappone una realtà che comprende le coste, le colline e la montagna, con le loro bellezze e le loro asprezze, partenze, restanze, abbandoni, ritorni, differenze. Non una nuova variopinta cartolina, ma uno sguardo capace di vedere le bellezze e le tragedie, le culture e i popoli, il messaggio di pace e convivenza e gli innumerevoli conflitti. Nonché ii dramma dei nuovi Ulisse «scacciati spesso da nuovi e prepotenti Ciclopi, che hanno perso anche l’unico occhio dei loro progenitori, e si rivelano ciechi, senza memoria, quindi senza una delle condizioni necessarie per progettare il presente e il futuro del Mediterraneo».
In questo mare Teti naviga con sapienza insieme raffinata e carnale. Il viaggio lungo l’evolversi dei cibi e della nutrizione -e il loro legame con storie e territori- viene condotto dall’autore con la passione del ricercatore che mai si acqueta, che getta ponti fruttuosi tra passato e presente, che cerca la vita che sempre si rinnova e sempre porta con sé quel che si è costruito e vissuto prima, non per rimpiangere, ma per sconfiggere la morte. E, lungo il viaggio, il lettore incontra più di un dono. Per esempio quando con perizia narrativa vengono assemblate, a tema, pagine di letteratura meridionale che assicurano un godimento letterario che nei libri di Teti non manca mai, sia che i brani vengano da egli direttamente elaborati, sia che vengano mutuati dagli scrittori di cui frequenta le pagine. In questo caso scrittori meridionali che narrano, anche, di fame e di pinguetudini e dei loro contrasti. Immagini di disuguaglianze sociali. Anche attraverso di essi, il libro restituisce quadri d’insieme, contesti, pratiche di vita, significati che vivono nella storia, nei rapporti sociali, nei paesaggi, nelle culture materiali ed immateriali.
Alla fine del viaggio, che pur ha toccato le rive del dramma e della tragedia, ci si ritrova comunque con negli occhi i mille colori di una terra che, nel corso della storia, ha vivificato i suoi popoli e i suoi cibi: «La magia, l’esplosione, l’estetica dei colori alimentari appaiono esito, in definitiva, della ricerca di equilibrio e di vita, della necessità di mescolare, inventare, creare».

                                                                                                     Nando Cianci


Il risvolto: Il pane, l‘acqua, la pasta, le erbe, la carne e poi la fame, l‘abbondanza, l‘immaginario, le nostalgie, le utopie alimentari dei popoli mediterranei sono i protagonisti di questo “racconto del cibo”. Sorta di breviario alimentare, Il colore del cibo vuole interpretare l‘alimentazione mediterranea come espressione di una civiltà fondata sul senso dell‘ospitalità, della sacralità del cibo, del mangiare insieme. Giunto alla sua terza edizione, totalmente rivista, il libro ci invita a specchiarci nel cibo, a riconoscere la nostra civiltà in ciò che mangiamo: in alternativa all‘ideologia del fast food e alla “gastro-anomia”, al di fuori della retorica della “dieta mediterranea”.


L’incipit: In questo volume - apparso originariamente nel 1999 – protagonisti sono i cibi, il pane, l’acqua, la pasta, le erbe, la carne, e poi la fame, il mangiare, le pratiche, le culture, i riti, i simboli, le nostalgie alimentari degli uomini del Mediterraneo. È inutile nascondere la sua originale ambizione di contribuire alla costruzione di una sorta di inventario o di “breviario” degli alimenti del Mediterraneo, prendendo a prestito questo termine caro a Matvejević (1991). Con un approccio che in seguito avrebbe costituito il riferimento anche per la costruzione di un lungo itinerario di ricerca e approfondimento sui luoghi e sul loro abbandono (Teti, 2004, 2017), alla base di questo spunto c’era anche l’intuizione che i cibi avessero un senso, un colore appunto, che potesse essere ricostruito, e in qualche misura “esigesse” di essere raccontato, o di raccontarsi in modo autonomo, evitando la tentazione di facili generalizzazioni, anche partendo da storie, memorie e riflessioni, narrazioni e ricostruzioni; da esperienze intime, personali e condivise. Attraverso i capitoli che lo compongono, il volume riassumeva e sviluppava un percorso attorno al cibo come oggetto di studio avviato già all’inizio degli anni Settanta con la mia tesi di laurea, sotto la guida di Diego Carpitela, che era stato uno dei protagonisti della straordinaria stagione di ricerca dell’etnografia demartiniana al Sud, e proseguito con la pubblicazione di Il pane, la beffa e la festa (1976). Con una felice espressione di Luigi M. Lombardi Satriani, in quegli anni “il folklore era uscito dal ghetto” e diventava oggetto sia di nuove riflessioni storico-antropologiche che di consumo e uso strumentale. Una svolta anche per me in qualche modo decisiva per farmi rileggere diversamente il mondo da cui provenivo che, come molti altri, volevo cambiare. Anche se si tratta di una riflessione a posteriori, posso far risalire a questo momento il pensiero che il mutamento potesse consistere anche nel conservare, nel resistere proprio ai mutamenti che la società di massa imprimeva.

 

L’autore: Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”. Si occupa di storia e culture dell’alimentazione, di antropologia del viaggio e dell’emigrazione, di riti e feste nella società tradizionale e in quella attuale, di antropologia ed etnografia dell’abbandono e del ritorno, con particolare riferimento alle aree interne d’Italia. Tra le più recenti pubblicazioni: Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (2014); Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (2015); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (2017); Il vampiro e la melanconia. Miti, storie, immaginazioni (2018).

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