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CRITICA DELLA RAGIONE EMPATICA

Fenomenologia dell'altruismo e della crudeltà, di Anna Donise, il Mulino, Bologna, 2020, pp. 304, € 26,00.

L’ideologia corrente esorta all’empatia confondendola con l’altruismo o persino con la bontà. È un errore fatale. Attraversando arte, filosofia e psicologia, questo libro smonta la connessione semplicistica e falsa tra morale ed empatia e ne costruisce una, più complessa, tra empatia e umanità. Tutti siamo empatici, ma non tutti siamo buoni. L’empatia, infatti, è necessaria anche ai torturatori, ai sadici, a chi – e il mondo contemporaneo, con i suoi muri e le sue derive securitarie ne fornisce innumerevoli esempi – contrappone il «noi» agli altri. Noi non siamo buoni perché siamo empatici ma possiamo diventare migliori conoscendo l’empatia, la sua forza, le sue strategie, i suoi segreti.

L’intervista: Un saggio pensato per mandare in soffitta il mito dell’empatia come sentimento radicalmente virtuoso. Buonista, si potrebbe dire con un’altra espressione della quale siamo abbondantemente satolli. Empatico, insomma, è anche il violento, il crudele. Dipende tutto da come viene declinata quella connessione emozionale. Il sottotitolo del lavoro è infatti Fenomenologia dell’altruismo e della crudeltà.

Perché, da filosofa, ha scelto di scrivere questo libro?
«L’empatia è un nostro modo di conoscere il mondo. Ho scritto una Critica perché credo – da filosofa – che la nostra possibilità di ragionare, di comprendere e di trasformare il mondo, debba fare i conti anche con il sapere che ci proviene dal nostro essere empatici».
La tesi del suo lavoro vuole smentire l’empatia come un valore di per sé positivo. Perché?
«L’empatia è positiva come lo sono la vista, l’udito, il tatto: toccare l’altro può significare fargli una carezza ma anche tirargli un pugno. Tuttavia, non possedere il senso del tatto renderebbe la nostra vita molto diversa e complicata. Per come viene impiegato, l’appello all’essere più empatici mi sembra però essere più simile ad un generico appello alla bontà. Comprendere i meccanismi dell’empatia ci consente invece di capire anche perché in alcuni contesti essere invasi dalle emozioni dell’altro può impedirci di valutare la situazione in maniera ragionevole oppure come mai capire cosa l’altro sta provando può diventare un’arma da usare contro di lui».

[…]
Oggi si parla molto di odio, di paura. L’empatia ha molto a che fare sia con l’uno che con l’altra. Questa tendenza ha avuto un ruolo nella scrittura del suo libro?
«Studiare l’empatia ci consente di comprendere meglio anche questi fenomeni. L’empatia non è solo “empatia positiva”, ma anche “empatia negativa”, come scriveva Theodor Lipps, uno dei pochi filosofi letti da Freud all’inizio del Novecento. L’altro non produce solo dinamiche fusionali e di identificazione, ma anche dinamiche di conflitto e di disgusto. Il disgusto è una tipica forma di empatia negativa che mi allontana e mi differenzia dall’altro».

[…]
La politica, a partire da Obama, ha spesso costruito il suo storytelling sull’empatia. È una scelta sbagliata?
«Non credo sia una scelta sbagliata, credo che sia una sorta di appello ai buoni sentimenti, che un politico può e deve fare. Quando si dice che bisogna divenire empatici non si intende però solo più capaci di comprendere le emozioni dell’altro, ma si intende capaci di reagire a queste emozioni in modo rispettoso e magari accogliente. Io non credo che sia sufficiente sentire l’altro con le sue emozioni per trovarlo simpatico e amabile. In alcuni casi, al contrario, l’altro non ci piace, è antipatico o ci spaventa. Trovo che non ci sia nulla di sbagliato in questo. Il punto è che se un altro non mi piace, questo non mi autorizza a trattarlo male. Diciamo che l’empatia funziona come uno zoom che ci consente di guardare l’altro, di sentirne le emozioni e comprenderne le vicende, ma decidere come trattarlo non può essere solo una “faccenda empatica”».

Quanto è importante l’empatia nelle dittature e nei regimi autoritari in generale?
«Per rispondere a questa domanda devo chiarire che io penso l’empatia come stratificata. Nel libro faccio l’esempio di una torta a più strati: gli strati più in alto si fondano su quelli più in basso. Lo strato più basso e fondante è l’unipatia, che è una dimensione fusionale nella quale l’io non è ben definito e abbiamo difficoltà a distinguere le nostre emozioni da quelle degli altri. L’unipatia e il contagio emotivo sono fondamentali per comprendere le dinamiche delle masse, capaci di identificarsi con il capo carismatico, ma anche di divenire violente e crudeli, molto al di là delle intenzioni del singolo, che nella massa si perde, come notavano già Le Bon e Freud».
(Antonio Lamorte, www.ilriformista.it)

L’incipit: «Per la prima volta si immaginò quel mondo intimo e personale: i sogni e i desideri di lei. E fu tanto atterrito dal pensiero che sua moglie potesse avere una vita intima tutta sua, che cercò di scacciarlo. Era questo l’abisso in cui aveva paura di guardare». [Tolstoj…] Aleksej Aleksandrovič Karenin, il noioso marito della più celebre Anna, lo dice senza mezzi termini: sentire l’altro può essere spaventoso, e immaginarne i desideri e i pensieri può esserlo ancora di più. Tuttavia, come sappiamo per esperienza e come sapeva anche Tolstoj, la capacità di sentire l’altro è parte del nostro essere umani.

Proprio da qui prende le

Mosse questo libro: l’empatia è un dato fondamentale della natura umana e non una qualità momentanea, che possiamo attivare o disattivare a piacimento. Molti di doloro che si sono cimentati con il tema, soprattutto negli ultimi vent’anni, hanno considerato l’empatia come una capacità da implementare per migliorare le relazioni intersoggettive o come uno strumento che combatte egoismo e individualismo; qualcuno è arrivato a definirla addirittura come l’unico antidoto contro la crudeltà. E questo non vale solo per gli addetti ai lavori, visto che quando il presidente Obama suggeriva di praticare l’empatia come strategia politica in risposta agli egoismi e ai localismi, stava chiedendo maggiore sensibilità e altruismo da parte di chi, avendo raggiunto un discreto livello di benessere, è nelle condizioni di pensare a chi si trova in difficoltà. Anche nell’uso quotidiano del termine, se qualcuno si riferisce a noi definendoci «tipi molto empatici», tendiamo a prendere le sue parole come il riconoscimento di una nostra spiccata sensibilità e di un nostro altruistico interesse verso l’altro.

E invece l’empatia – questo è quanto cercherò di dimostrare –, pur essendo una precondizione essenziale della nostra vita etica, non è necessariamente alleata né dell’altruismo, né di una concezione universalistica che riesca ad argomentare a favore di un’uguaglianza tra gli uomini, nei diritti e nei doveri. Anzi l’empatia rischia di spingerci ad essere parziali e partigiani: la difesa del «noi» contro «gli altri» è spesso condotta proprio attraverso l’uso di dinamiche empatiche. Per dirlwa in maniera sintetica: l’empatia può essere una preziosa alleata della crudeltà.

 

L’autrice: Anna Donise insegna Filosofia morale nell’Università di Napoli «Federico II». Si è formata in Francia e in Germania e ha pubblicato numerosi lavori sulla teoria del valore e la fenomenologia dell’azione morale.

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