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La plastica negli oceani fra mito e realtà, di Eleonora Polo, Dedalo, Bari, 2020, pp. 192, € 17,50.

Le isole di plastica sono cinque, undici o una sola molto grande? Ci possiamo camminare sopra? Perché non si vedono con Google Earth? È vero che nel 2050 in mare ci sarà più plastica che pesci? Un libro per rispondere a queste e a tante altre domande. Non mancheranno le sorprese.

Come si formano le isole di spazzatura? Quanto sono pericolose le microplastiche invisibili a occhio nudo? Quali strategie adottare per ripulire i mari? Le risposte a queste e a tante altre domande si trovano nel libro L'isola che non c'è. La plastica negli oceani fra mito e realtà.

Con questo volume, la Polo indaga l'ormai annoso problema delle cosiddette "isole di plastica", veri e propri ammassi di spazzatura galleggianti. La studiosa si pone quindi alcune domande: le isole di plastica sono cinque, undici o una sola molto grande? Ci possiamo camminare sopra? Perché non si vedono con Google Earth? È vero che nel 2050 in mare ci sarà più plastica che pesci? Un libro, quindi, per riflettere e rispondere a queste e a tante altre domande. Eleonora Polo da tempo affianca all'attività di ricerca la divulgazione scientifica a vari livelli, anche tramite seminari e conferenze in giro per l'Italia, rivolgendo una particolare attenzione alla scuola secondaria. Con il libro "C'era una volta un polimero" si è classificata terza al Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica nel 2014.
(Alessandro Giuliana, La Sicilia, 21 aprile 2020)

Ogni minuto finiscono in mare 300 chilogrammi di plastica, otto milioni di tonnellate all'anno. Una buona parte è costituita da oggetti monouso, di vita breve ma fatti di un materiale progettato per durare fino a centinaia di anni. Da dove viene? Dove va? Come è fatta? Che cosa le succede? In superficie c'è solo l'uno per cento del totale, il cinque per cento si spiaggia, il resto si deposita sul fondo. Per oltre il 90 per cento, sono micro e nanoplastiche distribuite su colonne d'acqua di 30 metri e sul fondo: fino a quattro miliardi ogni chilometro quadrato. Questi e molti altri i vertiginosi numeri e fatti che la chimica Eleonora Polo raccoglie in un saggio molto ben documentato, ricco di foto e grafici, che chiarisce la natura delle isole di plastica. Non le distese di rifiuti galleggianti fotografate dai mezzi di comunicazione, che sarebbero altrimenti viste dai satelliti, soprattutto nei gyre, gli 11 punti di accumulo distribuiti per il globo formati dalle correnti oceaniche. Perché la plastica in mare si muove, cambia, si degrada, forma nuove incrostazioni rocciose ed ecosistemi inediti. Fino a un milione di uccelli marini e 100.000 mammiferi muoiono di fame con lo stomaco zeppo di detriti. I focus sull'Italia e sul Mediterraneo, a tutti gli effetti un'isola di plastica, evidenziano che il problema ci riguarda da assai vicino: tra ingestione e inalazione ognuno ne assimila l'equivalente di una carta di credito a settimana. Così, l'artista Maria Cristina Finucci ha provocatoriamente istituito il Garbage Patch State, uno stato di 16 milioni di chilometri quadrati fatto dalle isole di plastica. Che cosa fare? Ricordando che la plastica non è il male assoluto, perché il suo uso ha migliorato igiene e sanità e ridotto le emissioni di gas serra nella lavorazione e nel trasporto delle merci, occorre intercettarla prima che finisca in acqua, e sviluppare tecnologie per recuperarla da lì. Ma soprattutto realizzare un'economia circolare, in cui il costo delle merci tiene conto del loro smaltimento. E l'arte ci sta dando una mano: dal riuso creativo a opere come le saponette fabbricate con l'acqua inquinata di Hong Kong. Un monito per non lavarsene le mani. 
(Giulia Alice Fornaro, Le Scienze, aprile 2020)

L’incipit: Il capitano Moore non credeva ai suoi occhi: «Mentre guardavo dal ponte la superficie di quello che sarebbe dovuto essere un oceano incontaminato, vedevo plastica a perdita d’occhio. Sembrava incredibile, ma non ho mai trovato un punto pulito. Nella settimana in cui ho attraversato le latitudini subtropicali, non importa a che ora del giorno guardassi, i detriti di plastica galleggiavano dappertutto».
Era l’8 o il 9 agosto 1997 – Charles Moore non aveva neppure segnato sul libro di bordo il primo avvistamento – e stava navigando da ore in un oceano torbido in cui di tanto in tanto si potevano individuare piccoli frammenti di plastica. Talvolta riusciva perfino a riconoscere un oggetto familiare. Il problema è che si trovava in mezzo al nulla, a centinaia di chilometri da qualsiasi costa in ogni direzione.

Com’era arrivata lì tutta quella porcheria?
Chi l’aveva scaricata lì?
Che cosa stava succedendo all’oceano Pacifico?
 

Domande che non lo hanno più abbandonato e hanno cambiato la sua vita a cinquant’anni passati. L’inizio di un viaggio che non si è ancora concluso.
Il capitano Moore era finito nella North Pacific High, una zona anticiclonica subtropicale permanente, un sistema di alta pressione detto anche la grande area di parcheggio del nord del Pacifico, quella che l’oceanografo Curtis Ebbesmeyer aveva definito la Grande Chiazza di Pattume del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) e il poeta Coleridge un oceano dipinto.
In realtà, il fatto che ci fossero negli oceani zone di accumulo di detriti di ogni tipo era noto fin dall’antichità ed erano già stati avvistati e segnalati rifiuti di plastica negli oceani almeno trent’anni prima.
Ma nessuno aveva prestato attenzione. Pochi si erano preoccupati. Dopotutto erano zone remote, lontane dalle principali rotte di navigazione, poco pescose e caratterizzate da correnti marine e ventilazione deboli. Ai tempi della navigazione a vela erano evitate come la peste: i romanzi di avventura abbondano di storie di velieri bloccati per settimane in mezzo al nulla come il Melita del romanzo la Linea d’ombra di Joseph Conrad.
In queste zone si trovano le isole di plastica. Tutti ne parlano, ma non sono segnate sulle carte geografiche o sulle mappe nautiche. Si dice che coprano quasi metà della superficie degli oceani, ma non c’è modo di trovarle per quanto si cerchi con Google Earth al massimo della risoluzione. Si dice che si vedano bene anche dai satelliti, ma quella fotografia è solo una fioritura di plancton.
Eppure nessuno dubita della loro esistenza, anche se pochi ne conoscono il vero aspetto. Le isole di plastica negli oceani. O non dovremmo dire piuttosto l’isola di plastica?
Si dice che siano cinque o sei. Gli oceanografi però ne hanno individuate undici che comunque finiranno presto per convergere in una sola. Enorme.

L’autrice:Eleonora Polo, laureata in chimica, è ricercatrice CNR e insegna Didattica della Chimica all’Università di Ferrara. All’attività di ricerca affianca una intensa attività di divulgazione scientifica. Ha pubblicato i libri C’era una volta un polimero e L’isola che non c’è (Dedalo).

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