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LEOPARDI MORALISTAdi Chiara Fenoglio, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 176, € 12,00.

Persuaso che la morale «non possa risorgere per ora», Leopardi ne esplora tuttavia i costumi, la storia, gli impieghi religiosi e pietosi, sostituendo ai precetti formali del vivere una “immaginazione morale” che, superata ogni istanza pedagogica, si affida al conforto malinconico della poesia. Ma il suo progetto guarda anche a una morale naturale e vera che, eliminate tutte le incrostazioni storiche, civili, religiose, sia valida in ogni tempo e luogo. Attingendo a fonti diverse, Leopardi trae degli exempla pienamente accordati al suo materialismo: il motto evangelico «venite et videte» diventa ne La ginestra il perno di un’etica originale, ancorata ai principi apparentemente contraddittori di verità e compassione. Principi universali non perché metafisicamente fondati e incontrovertibili, ma poiché l’uomo è «un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di genere».

Da una recensione: Genio disilluso, poeta altissimo, Leopardi ambì con le sue opere anche a elaborare una propria proposta di morale, fragile, non organica, in contraddizione forse tra verità incontrovertibile e pietas, frutto certo di un’incessante maturazione di pensiero durata un’esistenza intera. […]

In questo prezioso volumetto pubblicato da Marsilio, Leopardi moralista, Fenoglio ripercorre con cura l’evoluzione e l’apparente, a tratti, retrocedere della morale leopardiana da cui, scrive, non dobbiamo aspettarci indicazioni di vita pratica bensì un punto di vista sulle cose e sul mondo.

La prima fase della produzione di Leopardi si caratterizza dalla consapevolezza amara che il sommo possibile della felicità, nelle sue stesse parole, si identifica nel minor possibile sentimento: un privilegio, questo, che è appannaggio di una condizione selvaggia, primitiva, a cui, gli è ben chiaro, l’uomo non potrà più tornare. […]

Una morale di superficie, labile e transitoria non potrà bastare a Leopardi, che necessita l’identificazione di una forma di vita che si faccia degna, che sopravviva alla strage delle illusioni, pur mantenendosi compresa e compressa dentro i limiti materialistici della verità.

Leopardi nel suo eremo, nella solitudine popolata di libri, non cerca conforto ma confronto, scrive Fenoglio, ed è come se con alcuni autori intessesse una sorta di straordinario dialogo immaginato.

La lettura di Montesquieu lo spinge a riflettere sulla visione sostanzialmente negativa della storia intesa come corruzione, morte organica e perdita secca, scrive l’autrice, che aprono la strada alla composizione della Canzone Ad Angelo Mai fino alla Ginestra, metafora della distruzione, […] metafora di ciò che annulla, come scrisse Emanuele Severino.

Fondamentale per Leopardi anche l’incontro con le parole di Mme De Lambert, regina del suo salon letterario di una Parigi lontana nello spazio e nel tempo, ma da cui il poeta trae consiglio per un tentativo di superamento del contrasto tra ragione e sentimento, tematica da lui profondamente sentita e di una morale non individuale, conchiusa, ma tesa a un bene comune, alla politesse, a un’umana preparazione alla carità.

Meno nota è l’influenza sul poeta da padre Segneri, dalle cui prediche, svela Fenoglio in pagine di straordinario interesse, Leopardi attinse parte dell’immaginario. Dal gesuita come dagli altri non derivò, tuttavia, una morale compiuta, chiosa l’autrice, ma degli exempla, degli emblemi che […], rifiutando qualsiasi ripiegamento romantico su di sé, pone a servizio di un potente sogno di rinnovamento etico e civile: idea fondante, in ultima analisi, di un tentativo massimo di mantenersi saldi a bellezza e verità.

(Anna Vallerugo, https://www.satisfiction.eu/chiara-fenoglio-leopardi-moralista/)

Da un’intervista all’autrice:
«Leopardi è un moralista disincantato, non crede all’arte di saper vivere, diffida di ogni pedagogia che non si sovrapponga a quella che lui chiama assuefazione, e sostituisce all’etica civile e a quella religiosa una più disincantata e radicale etica del vero. Nei Paralipomeni e soprattutto ne La ginestra, la morale è messa alla prova del nulla e del deserto dove non esistono le istituzioni politiche e religiose che da sempre hanno sostenuto gli ideali della virtù e della gloria. Ad esse Leopardi sostituisce una nuova morale naturale, valida in ogni tempo e luogo, il cui perno sono i principi apparentemente contraddittori di verità e compassione. Principi universali non perché metafisicamente fondati e incontrovertibili, ma poiché l’uomo è “un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di genere” (Zibaldone, f. 3647 dell’11 ottobre 1823)».
[…]
«Il programma etico leopardiano, se così vogliamo chiamarlo per quanto si esprima in forma di essai, di preludio, e non certo di manifesto, si libera dai pilastri dell’educazione tradizionale ottocentesca (fede, ragione, verità erano i pilastri del razionalismo cattolico a cui il padre Monaldo si richiamava) e si articola piuttosto a partire da ciò che nei secoli ha cementato l’identità dei popoli: storia, civiltà, religione sono forse categorie illusorie, ma proprio in quanto illusioni sono capaci di spronare all’azione per mezzo delle passioni civili. Tuttavia, nella penultima pagina dello Zibaldone, datata settembre 1832, Leopardi sottrae spazio a ogni tipo di illusione, e sembra così destrutturare quei principi morali che si reggono su speranza e fiducia: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza […] di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Che senso ha la morale, sembra domandarsi Leopardi, in un orizzonte dominato da queste verità? Rispondere significa fronteggiare la mancanza di scopo, il nulla e il deserto in cui la realtà sembra piombata con la crisi dei sistemi morali “classici”: è nel “vuoto pneumatico” del materialismo leopardiano che sorge una nuova morale, fragilissima, capace di durare appena mezz’ora (come ci avvisano le Operette morali) e insieme capace di persuadere a una vita degna».
(https://www.letture.org/leopardi-moralista-chiara-fenoglio)

L’incipit: In una lettera del 1825, indirizzata a Karl Bunsen e dalla critica considerata a lungo poco sincera, Leopardi consegna ai suoi lettori un breve ritratto di sé e nello stesso tempo delinea una precisa proposta intellettuale e civile: […]
Si tratta di un passo decisivo che opportunamente Emilio Russo sceglie per sintetizzare l’ambizione leopardiana riposta nel progetto delle
Operette Morali, più ancora che in quello di traduzione delle opere di Platone, a cui pure esplicitamente si riferisce. La lettera in effetti costituisce una vera e propria dichiarazione d’intenti, dalla quale traspare un compiuto e consapevole superamento dell’opposizione teorizzata nei primi anni venti tra letteratura e filosofia, nel segno della alleanza classica di delectare e discere, di princìpi morali e princìpi dilettevoli; Un’alleanza tuttavia estremamente difficoltosa, se è vero che in una delle Operette del 1824 Leopardi immagina una Accademia letteraria finalizzata a «procurare con ogni sforzo l’utilità comune» ma inscrive nel suo nome la radice ironica dei silloi, componimenti in esametri che nella tradizione classica contemperavano polemica fiosofica e poesia satirica. Leopardi, come sempre, sta con gli antichi e prende decisamente le distanze da una concezione dell’utile fondata sui parametri sociologici ed economici che la modernità utilizza per misurare lo “stato della civiltà”: l’utile è per lui strettamente legato alle convenienze sociali, alle bienséances, dunque al campo dei rapporti tra gli individui; nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, in effetti, si vorrebbero premiare le tre invenzioni che nell’età delle macchine maggiormente concorrono all’utile comune, inteso proprio in questo senso antimoderno, come benessere raggiungibile solo nell’amicizia, nella virtù e nell’amore. L’utile finisce così per coincidere con tutto ciò che, nell’epoca del capitalismo e del progressismo incipiente, è considerato dai più come sommamente inutile: nella premessa allo Spettatore italiano, nel 1832, Leopardi rovescia la scala dei valori delle società moderne e proclama il valore (propriamente inutile) delle opere d’arte, poiché «quanto tutto è utile, resta che uno prometta l’inutile per speculare».

L’autrice: Chiara Fenoglio è ricercatrice in Letteratura italiana all’Università degli Studi di Torino. Ha scritto Un infinito che non comprendiamo. Leopardi e l’apologetica cattolica del XVIII e XIX secolo (Dell’Orso, 2007, premio Tarquinia-Cardarelli) e La divina interferenza. La critica dei poeti nel Novecento (Gaffi, 2015, Premio Sertoli Salis). Ha curato l’edizione delle Lezioni manzoniane di Natalino Sapegno (Aragno, 2009) e Gli Strumenti umani di Vittorio Sereni (Il Saggiatore, 2018). Collabora a Lettere italiane e a La Lettura del Corriere della Sera.

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(G. Leopardi, Zibaldone, 16. Settem. 1832).

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