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COSTITUZIONE
A sostegno della “retrocessione” della storia in seconda fila nella scuola italiana vengono invocate anche le statistiche sulle “preferenze” degli studenti. Ma esse rappresentano, in realtà, l’effetto di una deriva culturale e civile che usa la storia stessa a fini di propaganda elettorale. Tutto ciò è anche lo specchio di una progressiva perdita di identità. Un articolo dello storico Giovanni De Luna su La Stampa.

Da quest’anno, grazie alle nuove norme che regolano l’esame di Stato conclusivo della scuola superiore, alla Maturità non ci sarà più il tema di storia. Alle critiche e alle proteste provocate da questa decisione, si è risposto appellandosi a un dato statistico: negli ultimi dieci anni, non più del 3% degli studenti ha scelto questo tipo di prova, una cifra così esigua da giustificarne la definiva cancellazione. Successivamente, il ministro Bussetti, incalzato dalle polemiche, ha cercato di sminuire la portata del provvedimento, assicurando che la storia sarà comunque tenuta presente nelle varie tracce del tema di italiano, indicandola così come una generica disciplina di riferimento, priva di una sua autonomia e spalmata in una serie di «ambiti» (artistico, letterario, storico, filosofico, scientifico, tecnologico, economico, sociale) che faranno da sfondo alla prova scritta di italiano. 
A essere degno di nota è però soprattutto lo scenario complessivo in cui l’iniziativa ministeriale si inserisce.
Da sempre, a legittimare la funzione della scuola pubblica c’è stata infatti una esplicita delega istituzionale: la scuola doveva controllare e armonizzare i contenuti dell’istruzione, uniformandoli ai principi e ai valori che lo Stato indicava ai propri cittadini come elementi fondamentali della coesione sociale e dell’appartenenza nazionale. Soprattutto per quanto riguardava la storia, era proprio il binomio Stato-scuola a filtrare gli eventi da ricordare, inserendoli in uno spazio pubblico che era essenzialmente quello della nostra «religione civile». Le date e i personaggi che affollavano il pantheon delle glorie patrie rinviavano a una concezione edificante della cittadinanza: si proponevano modelli, esempi, improntati a un catalogo di virtù civili, laiche, che facevano del passato un immenso giacimento a cui attingere per affrontare le insidie del presente e progettare un futuro condiviso.
Oggi non è più così e rinunciare alla storia come disciplina fondante della didattica, appare come la certificazione da parte del governo Lega/5 stelle di una tendenza che più passa il tempo più sembra inarrestabile: in Italia, infatti, in concomitanza con l’avvio della seconda Repubblica, i fondamenti della nostra religione civile hanno subito drastici cambiamenti: il moltiplicarsi delle «giornate della memoria» dedicate alle vittime (della shoah, delle foibe, della mafia, del terrorismo, delle catastrofi naturali, dei disastri ambientali, messe tutte sullo stesso piano, in un calderone indifferenziato) ha comportato una vera e propria privatizzazione del pubblico sentimento del passato, affollandolo di sentimenti contrastanti (richiese di risarcimento, sete di giustizia, spiriti di vendetta, ansie di perdono), tutti in precedenza appannaggio della sfera privata e di colpo diventati il cardine della nostra memoria collettiva. 
È stato un percorso segnato dal progressivo svuotarsi di una classe politica sempre più incapace di incidere sulla realtà dei processi culturali, soprattutto in quei compiti maggiormente legati all’educazione, alla capacità di recintare gli spazi della religione civile, di perimetrare appartenenze, di costruire identità collettive. Anche all’interno della scuola, i processi di formazione di ragazzi e adolescenti avvengono ormai secondo canali più sensibili alle mode e ai suggerimenti del web; là dove nella trasmissione dei racconti del passato regnavano sovrane la famiglia e la scuola, si è affermato invece un’inedita coalizione tra minori e mercato, in contrapposizione al mondo degli adulti e in grado di strutturare un universo separato, autosufficiente, con nuove gerarchie percettive, nuovi bisogni culturali, una gamma di consumi specifici. 
Il dato del 3% invocato dal ministro per testimoniare la disaffezione dei giovani nei confronti della storia è il frutto perverso di questa politica in disarmo, essa stessa oggi strutturalmente e irriducibilmente estranea, (se non nemica), alla storia. Le polemiche che si accendono sul nostro passato novecentesco e sul Risorgimento sono esclusivamente strumenti propagandistici da utilizzare contro i propri avversari politici, appiattiti su un presente senza spessore, argomenti «usa e getta» da consumare in fretta, in una sorta di campagna elettorale permanente. Una classe politica che, oggi più che mai, mostra di avere un rapporto con la storia strumentale, fatto di rimozioni e improvvise accensioni emotive, con la rinuncia ad indicare una propria genealogia, un proprio ancoraggio al passato, a una tradizione culturale di riferimento: la Lega, con Salvini, si è sbarazzata in fretta della tradizione celtica che Bossi cercò di «inventare»; i 5 Stelle non ci hanno mai neanche provato. 
La storia che il ministro Bussetti sta rifiutando, è proprio quella che Bobbio metteva a fondamento di una cultura intesa come «misura, ponderatezza, circospezione», una disciplina segnata dall’esigenza di «valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva». È una frase che racchiude l’essenza ultima di quello che noi intendiamo per conoscenza storica, un sapere in grado di sottrarsi alla tirannia dei luoghi comuni avvelenati dagli stereotipi e dai pregiudizi; un sapere che la scuola pubblica italiana si appresta a negare. 

GIOVANNI DE LUNA (La Stampa 8 marzo 2019)

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